lunedì 9 dicembre 2019

Siamo alla frutta



Scrive Federico Giannini su Finestre sull’Arte a proposito di Comedian, la banana attaccata a un muro con nastro adesivo che Maurizio Cattelan ha presentato ad Art Basel Miami Beach:
Comedian è qualcosa di più: intanto, è un’opera che trasmette dei contenuti, anche se non ci si vuol credere e anche se si vuol far finta che non dica alcunché solo perché, in fin dei conti, stiamo parlando d’una banana appesa a un muro. Sarebbe interessante scoprire chi sia stato il primo ad affermare quell’immane bestialità secondo cui l’arte non dovrebbe aver bisogno di spiegazioni: chi può dire di entrare agli Uffizi e di capire opere come il Tondo Doni di Michelangelo, la Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto o la Venere di Urbino di Tiziano senza aver necessità di qualcuno che le illustri? Rievocando D’Annunzio, che cos’è la critica d’arte se non l’arte di godere l’arte? E Cattelan ci ha offerto nient’altro che un’opera di cui tutti possiamo letteralmente godere. Eventualmente anche senza vederla dal vivo.
E ad ogni modo, Comedian è opera che, comunque la si voglia pensare, trova una collocazione estremamente coerente nel percorso di Cattelan: è puro teatro, è uno spettacolo nello spettacolo, è un nuovo dramma di cui Cattelan è il regista (un regista di quelli che forse poco o niente si curano della reazione del pubblico), e del quale noi siamo spettatori cui spetta decidere come trovare la pièce: possiamo essere divertiti, tristi, seri, annoiati, furiosi, saccenti, indifferenti, astiosi, frustrati.

Vorrei intanto rispondere al pregevole tentativo di Federico Giannini di far passare gli asini per cavalli e nel mentre, magari, fare qualche considerazione sull’arte contemporanea, in particolare su quella che di contemporaneo ha conservato soltanto la propria mercantile autoreferenzialità.

Se le parole hanno ancora, oltre che un senso, un valore - un valore che ci consenta e ci permetta di articolare un pensiero compiuto - la parola “banale” non è priva di significato. Quindi, un filosofo che di professione usa le parole per descrivere ciò che vede, e lo fa con la massima lealtà e onestà intellettuale, quando vede una banana appiccicata ad un muro, descriverà la scena come quella di una banana appiccicata a un muro. Potremmo obiettare che, anche vedendo la Cappella Sistina, lo stesso filosofo potrebbe descrivere la scena come un semplice soffitto colorato ma c’è una differenza che in arte è dirimente e fondamentale.
Occorre sapere, infatti, che nella storia dell’arte ci sono un prima e un dopo: prima della fotografia e dopo la fotografia, così come nella storia del teatro ci sono un prima del cinema e un dopo il cinema.
Prima di questa rivoluzione, l’arte detta figurativa, oltre la figurazione e il cromatismo delle forme, doveva contenere un dato narrativo, spesso descrittivo di eventi mistici o religiosi o mitologici o celebrativi dei facoltosi committenti, raramente riferibili a situazioni domestiche e ordinarie. L’analfabetismo diffuso, ostacolo principale dei processi di evangelizzazione dalla parte religiosa e di suggestione dalla parte del potere feudale, costringeva la letteratura a diventare ancella di rappresentazioni figurate di fatti ed eventi che dovevano formare, con storie illustrate comprensibili universalmente, le coscienze religiose ed i sudditi del tempo. Bisogna aspettare la fine dell’ottocento perché gli artisti, finalmente convinti ad indagare autonomamente la natura ed il suo potenziale estetico, facciano un passo fuori della rappresentazione fedele delle trame letterarie, e comincino addirittura ad indagare se stessi, i propri sentimenti e le proprie pulsioni più private ed intime.
Questo processo, che da Van Gogh arriva fino all’arte informale, non è altro che una continua e progressiva liberazione di senso e di significato dell’opera d’arte. Le opere d’arte, private di qualsiasi riferimento figurativo, hanno senso e significato solo per se stesse, non più per ciò che rappresentano, perché non rappresentano più niente. In loro non ha senso nessuna “spiegazione” come vorrebbe la critica che io chiamo di tipo narrativo, formata su testi letterari e mai calata nella materialità e concretezza della scrittura artistica. Cosa ci vuol dire l’artista, all’arte contemporanea onesta non frega nulla. L’estetica contemporanea trascende la morale perché la sua etica coincide con l’estetica dell'opera, che, tramite la scrittura, ci arriva come messaggio estetico oltre qualsiasi sermone esplicito o implicito del suo contenuto.
Io non so se Federico Giannini abbia mai preso un pennello in mano, ma se lo avesse fatto capirebbe quello che sto dicendo, che il senso d’un dipinto, o di qualsiasi opera d’arte, sta nell’atto di prendere quel pennello in mano, intingerlo nel colore e comporre non un pensiero, ma un quadro reale, concreto. Quello che viene e deve  mancare nell’esperienza artistica contemporanea è la finzione, la quale può manifestarsi solo ed esclusivamente come imitazione, come metafora o come allegoria, in cui non partecipano tela, colore, oggetti o altro ma solo un eventuale significato che la materia mette in scena.
Giannini capirebbe che chiedersi: “chi sia stato il primo ad affermare quell’immane bestialità secondo cui l’arte non dovrebbe aver bisogno di spiegazioni” è confessare di non aver capito molto, per esempio, dei tagli di Fontana, dei sacchi di Burri o dei manifesti di Mimmo Rotella, che di spiegazioni, come la danza o la musica, non ne hanno mai avute. Dov’è la finzione in Fontana, Burri o Rotella? la progressiva assenza di simulazione e di significato, aprendo al mondo dell’arte l’universo dell’astrazione, lascia, quindi, quel vuoto narrativo che la tradizione artistica poneva come movente espressivo fondante. Gli artisti del passato utilizzavano la finzione scenica con la cautela di chi poteva mentire a fin di bene - il bene era considerato tale in quanto strumento di conoscenza - evitando qualsiasi evento scenico che potesse disturbare la lettura corretta del messaggio. Questo vuoto ha trovato i suoi interpreti negli artisti dell’arte concettuale, i quali hanno iniziato un percorso che ha portato all'esclusione della scrittura, del segno personale, affidando il messaggio alla sola scena. Con questi artisti l’arte figurativa diventa teatro e la finzione, non dovendo rendere conto alla concretezza d’un progetto tangibile, può liberare tutti i suoi significati: impostura, raggiro, falsità, bugia, menzogna, imbroglio,inganno. L’imbroglio dell’azione performativa, assolutamente priva di progetto e di scrittura, oggi può elevare una banalità come la banana di Cattelan a simulacro delle ipocrisie d’un mercato dell’arte disposto ad accettare d’esser preso per i fondelli. Dice Francesco Bonami: ”Dall'orinale capovolto (Fontana) presentato da Marcel Duchamp nel 1917, ad America, il cesso d'oro 18 carati di Maurizio Cattelan esposto nell'autunno 2016 al Guggenheim di New York, in cento anni abbiamo visto davvero di tutto: oggetti, concetti, progetti, accomunati dall'intento di sorprendere. Ma ora all'arte non bastano più solo idee che si rincorrono con l'obiettivo di risultare una più rivoluzionaria dell'altra: provocazione dopo provocazione, la contemporaneità ha esaurito il proprio potere di stupire. Per tornare a essere utile, l'arte deve ritrovare la capacità d'inventare e narrare storie, recuperando quell'essenziale cocktail di ingenuità e genialità che è alla base della creatività umana.” Tradotto nel mio linguaggio, dico che l’arte ha necessità di scrittura, d’invenzione, dove le idee per essere espresse non hanno più bisogno di scippare il quotidiano. È già successo, con la pop art, in un contesto nel quale la presa in giro del consumismo aveva un senso ed il sermone anticapitalista aveva una qualche prerogativa in grado di giustificarne la provocazione. Ma oggi? Perché riproporre un déjà vu banale, dopo che quest'arte per prima è diventata mercato, quindi oggetto della sua stessa contestazione? Solo l'idea, solo il concetto, in assenza di scrittura non hanno valore se non in presenza d'un mercato disposto a pagare anche il nulla esistenziale pur di sentirsi in gioco. Non è neppure sufficiente la coerenza. La banalità del gesto non acquista natura diversa in presenza del pedigree dell'autore. Chissenefrega del prima e del dopo. L'arte contemporanea, proprio quella che giustifica la precarietà e deperibilitá delle opere, si occupa del "adesso" , del presente. Un presente che si realizza nella scrittura, non nel concetto sostenuto da un'idea. Solo la scrittura marca lo spazio in un determinato tempo (spazio-tempo), solo il segno è evidenza che determina il presente con i suoi pregi e difetti, con le sue differenze. Sulla teatralità dell'arte performativa ho già scritto in passato. La sua deriva definitiva segnerà finalmente il ritorno alla scrittura e alla ricerca.


lunedì 18 novembre 2019

La progressiva cretinizzazione delle persone è un vero problema


Traduzione dell'intervista di Simon Brunfaut del 06 novembre 2019 al filosofo Michel Onfray, apparso sul giornale belga L'Echo.

Nel suo libro Teoria della dittatura, Michel Onfray presenta il lavoro di George Orwell come una grande prefigurazione del mondo contemporaneo. Il filosofo, che non teme il confronto, descrive qui la nuova forma di dittatura che stiamo affrontando oggi.

George Orwell è, secondo te, un immenso pensatore politico. Ha rappresentato i totalitarismi del ventesimo secolo e ha anticipato il nostro tempo. In che modo la nostra era porta il segno del totalitarismo? Non è un po 'esagerato? Siamo davvero entrati in una nuova forma di dittatura?

No, non è esagerato, perché non dico che siamo tornati al nazismo o allo stalinismo. Quello che mi interessa non è il modo in cui il totalitarismo funzionava, ma come funziona nell'era di Internet, dei data e dei telefoni cellulari. Questo totalitarismo contemporaneo non è dotato di elmetto o stivale. D'altra parte, viviamo in una società di controllo: il fatto che possiamo essere ascoltati costantemente, il fatto che accumuliamo dati su di noi, ecc. Questa società di controllo non ha mai raggiunto un punto incandescente.

Le nuove tecnologie non hanno quindi alcun vantaggio ai tuoi occhi?

Siamo in una sorta di servitù volontaria nei confronti delle nuove tecnologie. Ma a volte è estremamente perverso. Ad esempio, per garantire la riservatezza, ti chiediamo di accettare alcune cose ... Ma, accettando, diamo alcune informazioni a Gafa. Possiamo accettare il dispositivo di controllo, ma possiamo anche rifiutarlo. Allo stesso tempo, se rifiuti, non puoi più viaggiare in treno, aereo, ecc.

È quello che Orwell ha anticipato?

Orwell pensa con l'aiuto di un romanzo. Usa la finzione. Ma la sua fantascienza ha smesso di essere immaginaria; è diventata una scienza. Questo schermo TV che ci controlla permanentemente esiste oggi. Ci siamo. Orwell ha inventato cose sul controllo e l'invisibilità dei poteri. Ciò che distingue il vecchio totalitarismo dal nuovo totalitarismo è proprio questo. Prima, il potere aveva una faccia identificabile. Oggi chi decide? Dove sono le persone che lo rendono possibile? Secondo me, queste persone sulla costa occidentale hanno un progetto di dominio del mondo e un progetto transumanista.

Il capitalismo sfrenato è anche responsabile di questa situazione?

Il capitalismo non scomparirà: è consustanziale con l'uomo. Oggi non ha più nemici davanti a sé. Con la caduta del blocco sovietico, il capitalismo sentì che poteva trionfare. Alcuni, come Fukuyama, sostenevano addirittura che fosse la fine della storia, la completa vittoria del neoliberismo. Tuttavia, il mondo non riguarda solo capitalisti e comunisti. Ci sono anche poteri spirituali, come l'Islam. L'abbiamo visto l'11 settembre 2001.

Credi che la democrazia rappresentativa sia morta?

Sì. Il popolo e i rappresentanti non coincidono più. Nelle assemblee e nei parlamenti c'è una sovrarappresentazione delle professioni liberali, come avvocati, insegnanti, ecc. Ci sono pochi pastori, tassisti o studenti. Ciò significa che esiste una parte della società che semplicemente non è rappresentata. Inoltre, per sperare di essere eletti, bisogna avere denaro, fondersi in un dispositivo, passare attraverso lo stampo di un partito. Questa democrazia rappresentativa ha avuto il suo tempo. Il referendum sul Trattato di Maastricht fu una perfetta incarnazione del suo limite: il voto eletto contro il popolo.

Come definisci il populismo che temiamo così tanto oggi, tu che credi nella gente per rilanciare la democrazia?

Non ho problemi a definirmi populista. Tuttavia, faccio la differenza tra populisti e "populicidi". Questo è dove si trova il problema; e no, come siamo portati a credere, tra populisti e democratici. Macron, Chirac e Mitterrand prima di lui, sono "populicidi". Queste persone non vogliono governare per le persone. Il referendum di iniziativa dei cittadini è un'idea molto interessante. L'idea che ci siano membri eletti revocabili è una buona cosa. Ovviamente, nel contesto attuale, la progressiva cretinizzazione delle persone è un vero problema. E qui ti sorprenderò con quello che ho detto prima: il grande vantaggio di Internet è che le persone possono cercare informazioni alternative. È fantastico, un popolo che decide di farsi carico. Che una legge possa essere pensata e criticata dalla gente è un'ottima idea.

Cosa ne pensi dei movimenti di disobbedienza civile che appaiono?

Quando Thoreau parlò di disobbedienza civile, stava parlando della guerra contro il Messico. Quando Martin Luther King lo prese, fu per combattere il razzismo. Stessa cosa per Ghandi, quando vuole l'indipendenza dell'India. Oggi tutti pensano che la disobbedienza civile debba funzionare sempre. La domanda che si pone attraverso tutti questi movimenti è questa: qual è la grande causa che viene difesa? È chiaro che spesso è se stessi. Ad esempio, un insegnante rifiuterà di dettare o passare un esame perché non è d'accordo con una legge del Ministro della Pubblica Istruzione ... Rifiutarsi di dettare non ti trasforma in Jean Moulin . Ho una grande idea di resistenza. La disobbedienza civile deve essere riservata alle grandi cause comuni.

Ti piace l'emergenza climatica?

No, la grande causa comune sarebbe il trionfo dei giubbotti gialli. L'emergenza climatica è il falso naso del capitalismo. Ad esempio, le auto elettriche che ci vengono presentate come ecologiche non lo sono. Vogliamo rifornire un capitalismo verde, così chiamato "eco-responsabile". Oggi, quando vogliamo acquistare un prodotto, ti diciamo che è "biologico". La vera ecologia, a cui aspiro, è presa in ostaggio da questa ecologia urbana che è nelle mani degli inserzionisti. Giochiamo con il riscaldamento globale, che è innegabile, trascurando le sue cause veramente scientifiche.

Greta Thunberg, a cui hai dedicato un testo molto controverso, sei anche una figura di questo capitalismo verde?

Questa ragazza è nelle mani del capitalismo verde che usa l'ecologia come un buon punto di forza. Alla sua età, per quanto sia intelligente, non riesco a immaginare che possa avere gli argomenti necessari per padroneggiare tutte le questioni scientifiche alla base della questione ecologica.

Come analizzi i diversi movimenti sociali nei quattro angoli del pianeta? C'è qualcosa che, a parte le differenze, le unisce?

Oggi non è più possibile inviare i militari per strada, perché tutti si ribellerebbero, grazie, ancora una volta, al flusso di informazioni. Tuttavia, temo che tutti questi movimenti siano solo una specie di grande brivido democratico. Un dittatore se ne va e un altro lo sostituisce ... E pensiamo che cambi tutto. Non è perché metteremo Macron a portata di mano e Muriel Penicaud rimarrebbe al suo posto che questa sarebbe una grande rivoluzione democratica. Tutti questi movimenti sono il segno dell'esasperazione dei popoli. Non possono più vedere che ci siano fortune imbarazzanti e che ci siano persone che fanno guerre al solo scopo di diventare ricchi. Come Trump che, con incredibile cinismo, dichiara, dopo aver ucciso Baghdadi, di averlo fatto per proteggere il petrolio ...
Oggi, grazie alle reti, le persone sono in grado di scendere per le strade molto rapidamente. Questa rivolta di popoli mi rallegra e, allo stesso tempo, temo che sarà recuperata dai demagoghi che sono sempre lì in agguato. I giubbotti gialli sono stati recuperati da Mélenchon, la violenza degli interruttori e dei blocchi neri, ecc. In un certo senso, questa è la lezione della storia: le persone soffrono ancora di questo coinvolgimento.

Le parole intellettuali sono necessarie in un mondo in cui chiunque fa l'intellettuale.
Non esiti a essere deliberatamente controverso. È questo il ruolo del filosofo? L'intellettuale contemporaneo deve essere necessariamente impegnato?

Sì, le parole intellettuali sono necessarie in un mondo in cui chiunque fa l'intellettuale. Oggi tutti danno la loro opinione e ci dicono come dovrebbe funzionare il mondo. Non vedo perché sia ​​sorprendente che intervenga su tutti gli argomenti. Perché dovrei essere meno legittimo di un calciatore?

Scrivi: "La lingua è attaccata". Cosa intendi con questo?

Mio padre è stato cresciuto dalla scuola repubblicana. Sapeva scrivere senza fallo. Non ha fatto errori logici. Aveva imparato alcuni grandi classici della letteratura. La distruzione della scuola ha portato alla distruzione dell'intelligenza. Si tratta di formare meno un cittadino che pensa e di creare un consumatore che paga. Impariamo sempre meno cose. Alcuni ci dicono che non dovremmo fare dettati, grammatica, ecc. Ma il cervello è un muscolo: se non lo manteniamo, degenera.

Alla fine del tuo libro, dici: "Non sono sicuro di voler essere progressista". Come può il progressismo incarnare, secondo te, una forma di nichilismo?

Sono contrario al progressismo come ci viene presentato oggi. Il progresso non è un bene in sé. Può esserci un progresso del male, della morte. Dire a una povera donna che loderai il suo utero per avere un figlio non rappresenta, a mio avviso, un progresso. In questo senso, non sono un progressista. Non gioco a questo gioco di opposizione sistematica ai malvagi populisti e ai progressisti gentili.

Il socialista libertario e l'anarchico che sei possono essere così conservatori?

Certo. La pensione ha 60 anni, va bene. Deve essere tenuto. Da dove viene questa idea divertente perché vivendo più a lungo, dovremmo lavorare più a lungo? Al contrario, è necessario ridurre la difficoltà ed è molto positivo che i lavoratori lascino presto il pensionamento. Per rendere i bambini nudi sotto il piumone, ha funzionato per secoli. Perché affrontare i problemi volendo cambiare tutto? Dobbiamo mantenere ciò che ha funzionato. Il cambiamento a tutti i costi non ha senso. Se mi viene data la prova che è meglio, sono disposto ad accettarlo, ma per il resto... Oggi abbiamo l'impressione che la nostra civiltà stia avanzando alla cieca.


venerdì 8 novembre 2019

Omaggio a Remo Bodei



Ieri ci ha lasciato uno dei più grandi intellettuali del novecento: il filosofo Remo Bodei.
Intellettuale al quale devo molto, non tanto per l'autorevole (e, per me, immodesta) condivisione ideale di molti argomenti che coinvolgono l'arte e l'architettura, ma per la chiarezza e trasparenza del suo linguaggio, sempre abbondantemente sopra le proprie convinzioni personali, immune da qualsiasi fumo narrativo che non sia strumentale alla ricerca della verità. Mi ha insegnato, se devo esser sincero, insieme a pochi altri, che la filosofia s'inginocchia solo davanti alla verità. La cultura dovrebbe fare la stessa cosa e, a seguire, lo dovrebbero fare la politica e poi l'intera società.  L'onestà intellettuale fondamentalmente è questo: prendere le distanze dalla convenienza delle proprie convinzioni. Ma le distanze vanno prese dalla convenienza, non dalle convinzioni che sono la nostra essenza.
Oggi viviamo un tempo drammatico in cui gli onesti intellettualmente sono sconsiderati, nel senso che non li considera nessuno; tempo nel quale la descrizione della verità dei fatti non si affida più al rigore delle parole ma alla loro caricatura mercantile. Ergo, Bodei un faro, questo è indubbio.

Ripropongo un articolo di antiTHeSi.info di agosto 2003dal titolo: "A proposito di brutto", nel quale la marginalità del concetto di bellezza, in arte, trova significato nelle parole del filosofo.

A proposito di brutto
di Sandro Lazier - 14/8/2003


Da un'intervista con Remo Bodei di Silvia Calandrelli sul sito dell'Enciclopedia Multimediale di Scienze Filosofiche potremmo trarre parecchie riflessioni sul recente progetto di legge del ministro Urbani, in particolare sulla sostanza del problema che da filosofico e astratto diventa pratico e determinante: scegliere cosa buttare e cosa no. Le frasi riportate seguono un excursus storico-critico che parte dalla concezione platonica e classica di bellezza basata sulla proporzione e armonia. Quindi, l'espressione "brutto", usata in questo contesto, va riferita al suo significato evoluto storicamente nella cultura occidentale e non può essere generalizzato in forma universale. In periodo di globalizzazione dell'economia, e quindi della cultura , la condizione distinta e storicamente definita del giudizio estetico pone ulteriori problemi di determinazione inverosimilmente traducibili in trattati e regole di pronto uso.
Detto questo rimane l'intenzione di produrre e promuovere la qualità architettonica che, a mio parere, può essere perseguita solo in virtù d'impegno e responsabilità personali. In altre parole, il progettista delle opere di architettura, non esclusa la progettazione urbanistica, deve essere responsabile delle proprie azioni e non può più trincerarsi dietro la presunta neutralità di un incarico formalmente competente tutelato e garantito da un ordine professionale. Così come, fuori di una dittatura, non esiste verità di stato, non può esistere architettura di stato ma varie dottrine che si devono confrontare liberamente e che non possono ovviamente frequentare la stessa chiesa. Se lo fanno, come accade oggi, la prudenza e l'ipocrisia imposte dalla convivenza sono tali da soffocare sul nascere ogni possibile giudizio di qualità, limitando il confronto alla sola spartizione della torta e alla meschina tutela del proprio orticello.
La qualità passa per il vaglio della concorrenza sul piano delle idealità e delle teorie prima che su quello del denaro e del mercato. Se si disconosce questa necessità l'istanza architettonica resterà utopia.
L'invito è quindi rivolto ad una riforma delle attività professionali che dia spazio primariamente all'associativismo libero di proporre teorie comparabili e, soprattutto, schiettamente responsabili.

Intervista del 30/7/1996
Silvia Calandrelli
Tutta l'arte contemporanea, (da Picasso a Bacon, da Schönberg a Cage, da Beckett a Jonesco) rovesciando i canoni tradizionali del bello, produce opere d'arte in cui dominano, potremmo dire, lo stridore dei colori, la deformazione delle figure, le dissonanze, le frasi assurde. Allora cosa significa tutto questo, che il brutto è diventato nell'arte contemporanea la vera bellezza?

R. Bodei
Significa proprio questo, perché, siccome il bello non problematico, cellofanato, si è trasformato in kitsch, cioè in qualche cosa che non produce più nessuna emozione estetica, perché semplicemente asseconda, liscia tutti pregiudizi e tutte le forme percettive ormai consunte - complice fra l'altro, indirettamente, anche la fotografia, ritenuta per esempio, rispetto alla pittura, riproduzione pura e semplice della realtà; noi sappiamo che questo non è vero, nemmeno per la fotografia, ma comunque si credeva -, ecco, in questa situazione allora l'arte reagisce sperimentando qualche cosa che va al di là delle forme "fruste", come si chiamano, delle forme consumate, e quindi introduce, ad esempio in musica, in forma massiccia quelle dissonanze che già Mozart, per esempio, aveva sperimentato, o l'ultimo Beethoven. E le introduce per far sentire il dolore del mondo, una specie di pianto, che invece l'arte ufficiale, in genere sotto la grande ala dello Stato, cerca di eliminare in forma trionfalistica. Tutta l'arte veristica, l'arte dei trattori o delle colonne, del realismo più o meno socialista, per esempio quella sostenuta dal Lukacs, viene combattuta sia dalle avanguardie letterarie, sia in teoria, ad esempio,da posizioni come quelle dei filosofi della Scuola di Francoforte. In generale si pensa che nel cosiddetto mondo amministrato, regolamentato, tutto ciò che è in un certo senso armonico sia falso e che quindi l'arte deve recuperare tutto ciò che è stato condannato dalla società come brutto e messo da parte. In questo recupero avviene una presa di coscienza, perché noi, attraverso questi elementi che riusciamo a strappare alla condanna sociale riusciamo a recepire che cosa sono i pericoli per questa società, cosa teme questa società, di modo che le figure di Picasso, tutte contorte, hanno un valore di denuncia artistica, non soltanto sociale, che può essere espressa da un aneddoto che ha raccontato Picasso stesso: durante l'occupazione di Parigi venne un ufficiale tedesco nel suo studio e per prenderlo in giro, mostrando il quadro "Guernica", che rappresenta, come sappiamo, un bombardamento dei Tedeschi su questa città basca durante la guerra civile spagnola, disse: "Chi è che l'ha fatto questo orrore, l'avete fatto Voi?". E Picasso risponde: "No, l'avete fatto voi", cioè voi Tedeschi, cioè voi nazisti che volete appunto stravolgere la realtà. Se invece di rappresentare fiorellini, rondini, si rappresenta l'orrore, questo orrore ha un valore di carattere catartico e pedagogico, cioè ci fa capire come è fatto il mondo e nello stesso tempo ci addita una dimensione utopica di come potrebbe essere il mondo diversamente.

S.C.
Lei ritiene che la sensibilità dei nostri giorni sia ancora legata attualmente a questo pathos per il brutto?

R.B.
Mi pare che stia cambiando, però dobbiamo pensare a cosa ha significato questo pathos per il brutto. Il pathos per il brutto aveva a che fare con una situazione di denuncia del mondo così com’è, con la presenza di qualche cosa che ci spaventava, di qualcosa di arcaico.
C’è stato un periodo in cui l’arte si è posta come compito quello di svelare la presenza del dolore e delle lacerazioni all’interno della società e di ritrovare in questo rimosso il senso più autentico del bello, cioè soltanto puntando su questo rimosso e quindi con forme di privazione sensoriale. Dice Adorno: "L’arte è in lutto". C’è una specie di divieto del piacere, io non devo godere durante la rappresentazione delle opere d’arte, devo soffrire, devo sostanzialmente avere dell’arte una concezione ascetica. Adorno, che suonava il pianoforte e ha pensato molto la musica, ha pagine molto belle proprio sul carattere della musica. La musica ha un aspetto di sofferenza, ma un aspetto liberatorio che si manifesta soltanto col pianto. Leggerei solo una sua frase: "L’uomo che si lascia defluire in pianto e in una musica che non gli assomiglia più in nulla lascia contemporaneamente rifluire in sé la corrente di ciò che egli non è e che aveva ristagnato dietro lo sbarramento degli oggetti concreti. Col suo pianto e il suo canto egli penetra nella realtà alienata". Parole difficili, che significano: se noi, attraverso l’arte, e in questo caso la musica, riusciamo a smaterializzare, a togliere questa barriera che ci separa dal mondo, quindi dalla realtà alienata, se noi facciamo rifluire il mondo in noi e nello stesso tempo, attraverso questo allentamento della tensione che si manifesta nel pianto, facciamo in modo che la nostra soggettività si metta di nuovo in contatto col mondo, ecco che l’arte a questo punto non mi dà soltanto dispiacere, ma anche piacere.
Io credo che attualmente noi siamo stanchi forse di questa overdose di arte che fa soffrire e come tendenza generale - sociologicamente, non artisticamente parlando - si cerca un bello senza dolore. Quello che Aristotele aveva definito appunto tale era la commedia. Non che noi abbiamo più voglia di ridere che di piangere, però certamente questo grande pathos per andare a sperimentare tutte le forme del brutto, appunto per dipingere come faceva Bacon queste figure che si sciolgono quasi come un cadavere in putrefazione, oppure per riprodurre, come Webern o come Schönberg, tutto un sistema di musica tonale fatto di stridori, di dissonanze, non abbiamo più la pazienza.
Probabilmente questo dipende dal fatto che la sperimentazione si è avvitata su se stessa e che molte volte non c’è più creatività. Quello che è interessante è che il brutto non viene più necessariamente considerato un lievito o un concime per il bello. Si possono fare delle cose belle, senza pagare il pedaggio del brutto. Non so se questo sia un fatto transitorio o permanente, ma certamente perdendo il contatto col rimosso o col brutto probabilmente si sacrifica qualcosa e credo di poter ritenere che, dopo tutta questa fase luttuosa dell’arte del Novecento, il senso delle avanguardie potrà essere ripreso; senza avere la pretesa di riaffondare nuovamente nel brutto e nel rimosso, si dovrà pur fare i conti con ciò che un’arte troppo pacificata nel presente ci propone.

(----> Vedi l'articolo su antiTheSi.info)

domenica 27 ottobre 2019

Attività artistica e malattia mentale

Ripropongo ai lettori un prezioso articolo di Vilma Torselli pubblicato il 19/04/2007 sul sito www.artonweb.it  raggiungibile a questo link.



Attività artistica e malattia mentale
La capacità creativa come devianza dalla "normalità", alla stregua della malattia psicopatologica.


"Non esiste alcun ingegno se non mescolato alla pazzia." (Francesco Petrarca) 
La relazione tra l'attività artistica, in quanto espressione del potenziale creativo di un individuo, e la follia intesa come malattia mentale e disagio psichico, è un rapporto che da sempre affascina l'uomo e che ha trovato risposte diverse nei diversi periodi storici e nelle diverse culture: dibattuto a livello filosofico nell'antica Grecia, rimosso dalla tradizione conservatrice medioevale, riformulato in epoca rinascimentale ed assimilato al concetto di originalità accessibile attraverso la "malinconia" (sindrome depressiva e psicosi maniaco-depressiva), rivalutato nel Romanticismo nell'inscindibile binomio, fuoco creativo-folle sregolatezza, per giungere alla posizione positivista di Cesare Lombroso, fondatore della criminologia come scienza, che stabilisce come la genialità, la follia, la criminalità siano tutte devianze da una preconcetta normalità. 
Lombroso formulò l'ipotesi di una ereditarietà familiare sia del potenziale creativo che della tendenza ad alcune malattie mentali, ipotesi che parve confermata da una vastissima ricerca condotta in Germania e che mise effettivamente in luce una significativa relazione tra le attività più creative, si potrebbero dire specificatamente artistiche, ed il rischio sia di malattie mentali che di tendenza suicida, questa ultima quasi sempre collegata alle prime: ciò parve confermato anche dagli studi condotti dal sociologo americano Steven Stack, che rilevò come i suicidi siano molto più frequenti, statisticamente, fra gli artisti (morirono suicidi, ad esempio, Bernard Buffet, e Vincent Van Gogh, più volte ricoverato in manicomio, Ernst Kirchner, Mark Rothko).
Negli anni seguenti alle formulazioni di Lombroso, si svilupparono studi e teorie volti a dimostrare l'esistenza di un fattore a base biologica, e quindi trasmissibile per via ereditaria, in grado di favorire lo sviluppo di associazioni mentali inusuali ed originali, tipiche di vivaci processi creativi artistici, ma anche l'instaurarsi di malattie della sfera psichica e mentale, sembrando questo processo in qualche modo legato all'attività dopaminica.
L'ipotesi venne confermata a seguito degli studi di eminenti psichiatri di tutto il mondo, quali Nancy Andreasen, che rilevò una elevata presenza di disturbi dell'umore tra gli scrittori, e Joseph Schildkraut, che, come anche Arnold Ludwig e Felix Post, compì specifici studi sui pittori dell'Espressionismo astratto americano rilevando gli stessi problemi: al di là di ogni statistica, e' comunque un dato di fatto la follia di Vincent Van Gogh, di Antonio Ligabue, di Edvard Munch, così come non ci sono dubbi sulla genialità artistica del loro operare. 
In particolare per questi tre artisti, per i quali la malattia mentale si è manifestata anche come disaddattamento socio-relazionale, come incapacità comunicativa tra sé stessi ed il resto del mondo, tra il proprio mondo interiore e la realtà esterna, si può dire che la loro attività artistica, la possibilità di creare opere d'arte abbia in qualche modo ripristinato la capacità comunicativa attraverso l'espressione, in forma pittorica, della dimensione simbolica dei loro vissuti interiori e, forse, attraverso l'espressione di conflitti inconsci irrisolti, esternati e sublimati nell'oggetto artistico (si vedano al proposito le teorie di Otto Rank).
A questo proposito mi piace ricordare una suggestiva analogia proposta dagli psicologi esperti di art therapy Antonio Preti e Paola Miotto, che fa riferimento al mito del "simbolo", etimologicamente derivato dal greco "simballein" (riunire), costituito da una tavoletta incisa con un cartiglio: la tavoletta veniva spezzata in due parti e ciascun amico di una coppia ne conservava una metà, affinché, in un lontano futuro, dopo aver seguito ciascuno le proprie esperienze, gli amici potessero ritrovarsi, ricomporre il cartiglio e riconoscersi come metà di una stessa interezza.
In fondo l'arte, che si esprime per metafore, può essere anche "simbolo", mezzo ed occasione di ricongiungimento fra le parti frammentate di uno stesso Io, che attraverso l'espressione artistica ricompone il suo simbolo e ritrova se stesso. 
Alcuni studiosi sostengono che la malattia mentale sia in grado di favorire la creatività osservando come, in taluni casi, produca associazioni di idee inusuali e fuori da ogni parametro di razionalità, permettendo all'artista di portare alla luce immagini del tutto originali altrimenti non concepibili, frutto di processi mentali anomali che si manifestano anche grazie all'allentamento dei freni inibitori indotti dalla malattia mentale stessa (effetto che viene a volte ricercato consapevolmente dall'artista con l'assunzione di droghe o allucinogeni).
La disinibizione permette infatti di attuare legami e correlazioni tra idee anche lontane tra loro, rafforzando quindi la capacità creativa ed immaginifica del soggetto, stati mentali fuori dalla cosiddetta "norma" possono associare elementi che "normalmente" vengono tenuti separati e creare collegamenti secondo legami anomali che, proprio perché tali, risultano innovativi ed originali: queste condizioni si verificano più facilmente negli individui schizofrenici, per usare un termine ormai comune per una delle più diffuse psicopatologie, inventato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler.
A seguito di ulteriori indagini ed osservazioni, sulla base dell'approccio di Bleuler, si può giungere alla conclusione che effettivamente negli individui creativi esiste un modello di pensiero di tipo schizofrenico, senza tuttavia le manifestazioni di angoscia e dissociazione tipiche della malattia, come confermato dagli studi di Albert Rothenberg che identificò in tali individui la tendenza al pensiero "allusivo", inteso come capacità di unire in un unico concetto contenuti distanti per qualsiasi individuo "normale", senza essere disturbati dalle contraddizioni. 
In un'intervista del novembre 2002, Semir Zeki, inventore della Neuroestetica, alla domanda: "Il cervello degli artisti è morfologicamente diverso da quello dei non artisti?" risponde:
"Su questo aspetto solo una ricca aneddotica ci fa pensare che sì, ci siano delle differenze. Per esempio, l'area specializzata nel colore sembra essere molto più grande in un certo tipo di artisti, mentre quella adibita al movimento è più grande negli artisti cinetici. Ma sono solo delle ipotesi". 
Per ora.

lunedì 16 settembre 2019

Destra o Sinistra?



1

Gli ultimi avvenimenti politici nazionali hanno riproposto un tema che sembrava svanito nella nebbia del populismo dilagante contemporaneo. È bastato, infatti, uno scellerato colpo di testa d'uno dei protagonisti di questa grottesca stagione politica per mandare in frantumi tutto il castello teorico che considerava definitivamente chiusa la concezione capitale di ogni geografia politica, ovvero la collocazione degli schieramenti all'interno dell'emiciclo parlamentare: destra e sinistra.
Rivendicando un regime post-ideologico, indifferente alla collocazione tradizionale degli schieramenti politici, abbiamo assistito da parte del maggior partito italiano al più grande sbandamento a destra della storia repubblicana del nostro paese. Questo è avvenuto anche se il pericolo di viaggiare senza una bussola avrebbe dovuto suggerire che, senza sapere dove ci si trova, è difficile capire dove si sta andando e, quando lo si capisce, probabilmente ci si è già persi.
Dai tempi della rivoluzione francese, attraverso la sua legittima ambizione di far decidere le persone per natura e non per ceto, istanze e risposte sociali hanno trovato posto nella parte destra ed in quella sinistra del luogo destinato al dialogo e al confronto pubblico, ovviamente opponendosi, favorendo l'aggregazione di quei pensieri che più si assomigliano per sensibilità e costituzione.
Al di là delle differenze che i vari partiti politici rivendicano, sempre nella nobile ambizione di favorire il bene comune, la diversa natura di queste sensibilità può avere, come storicamente ha avuto, esiti incolmabilmente distanti ed ostili, che solo una razionale comprensione e un reciproco riconoscimento dei rispettivi valori ideali può dispensare da un inevitabile scontro fisico.
Il principio, infatti, che contare le teste sia meno doloroso che rompersele a vicenda, di einaudiana memoria, resta, malgrado gli aggiustamenti dei secoli, il fondamento concreto di ogni democrazia.
Destra e sinistra sono quindi luoghi più fisici che ideali.
Luoghi dove, per paradosso, in caso di scontro, si cercherebbe di trovare i possibili alleati. Luoghi nei quali, per quante siano le diversità, esiste comunque una ragione ultima per cui ci si può sentire schierati da una sponda anziché dall'altra del problema.
Lo scontro, dunque, appare come l'unico evento capace di definire in ultima istanza ogni personale geografia politica; la qual cosa consegna ad in criterio di relatività i concetti di destra e sinistra.
Ogniqualvolta, infatti, venga a determinarsi un conflitto, anche all'interno di uno stesso gruppo o partito o parte di esso, malgrado lo stesso appartenga dichiaratamente ad una formazione parlamentare definita, in essa si potrà riconoscere uno schieramento di destra ed uno di sinistra.
Sembra, in effetti, che dentro ogni persona agisca un preconcetto in grado di condizionare ogni decisione etica, indipendentemente dal contesto nel quale la stessa viene a determinarsi. Questa sorta di imprinting è parte del patrimonio intellettuale di tutte le persone. Quanto la sua formazione sia d'origine culturale, e quanto appartenga invece alla genetica, credo resterà un mistero, mentre conoscerne la natura potrebbe aiutare la comprensione e il dialogo tra pensieri anche molto diversi.

Norberto Bobbio, nel suo famoso saggio “Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” coglie principalmente la natura della differenza di schieramento politico tra destra e sinistra nel concetto di uguaglianza. Termine non banale che, riconoscendo le diversità tra gli individui, pur nella universalità dei loro diritti– e riconoscendo il valore della diversità e della complessità quali ricchezze collettive – l'autore considera come limite ideale a cui tendere e non come valore assoluto da perseguire sul cadavere delle libertà personali.
Queste sono le sue parole: «[…] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità». «[…] è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati […] a chiamare sinistra e destra».
Per Bobbio la sinistra è fondamentalmente egualitaria, che non vuol dire egualitarista: «Il concetto di uguaglianza è relativo, non assoluto». Egualitaria nel senso che tende a risolvere i conflitti riducendo le disuguaglianze, secondo un sentimento di giustizia innato nell'essere umano; egualitarista nel senso che pretende ideologicamente l'eguaglianza di tutti, su tutto e in tutti.
La destra, per converso, secondo questa logica è più inegualitaria, nel senso che pone il beneficio dato dalle differenze esistenti tra gli individui come irriducibile e superiore rispetto al senso di giustizia che li vorrebbe omologare. La destra, secondo questa lettura, tende a risolvere i conflitti trascurando le disuguaglianze o tollerandole a vantaggio di una maggiore libertà individuale.
È importante osservare come solo mediante il conflitto sia possibile individuare l'esatta collocazione del proprio reale sentimento politico.
Indipendentemente dal gruppo, famiglia o partito cui si appartiene, solo uno scontro concreto riesce a manifestare la natura profonda del nostro essere. Solo una situazione limite può verificare l'essenza dei nostri limiti.

Data questa condizione d'animo pre-cosciente, credo sia lecito domandarsi se le convinzioni politiche che ne discendono dipendano totalmente dalla costruzione culturale che le ha originate; oppure, per inverso, se non sia la condizione stessa ad aver generato l'impianto culturale che sostiene le convinzioni politiche.
La domanda quindi è: di destra o di sinistra, si nasce o si diventa?
La mia opinione è che le due ragioni convivano nello stesso individuo, ovviamente in misura diversa ed in proporzioni diverse. Gli umori e le condizioni sociali di ogni persona negli anni trovano il modo di destinarla geograficamente nello schieramento politico a lei più affine. Sicuramente, quel che non muta è l'imprinting che, al pari d'un dato biologico, ci fa stare da una parte o dall'altra della barricata quando ci troviamo in condizioni estreme. Esso dichiara se la nostra naturale tendenza è quella di sentirci parte di una comunità aperta alla diversità ed alla conoscenza, oppure d'essere partecipi d'un gruppo chiuso da difendere e tutelare rivendicandone il privilegio della peculiarità.
Riformisti e conservatori hanno origine da questa semplice dualità.
Da questa considerazione deriva che, mentre la costituzione egualitaria, di sinistra, tende ad essere inclusiva, l'altra, quella di destra, tende ad essere esclusiva.
Mentre la prima tende a costruire ponti, la seconda tende a costruire muri.
Mentre la prima tende al cosmopolitismo della cultura e alla ricerca di ciò che accomuna gli individui, la seconda tende alla particolarità e all'esaltazione delle differenze, elevando queste ultime da condizione di ostacolo alla convivenza a valore singolare da salvaguardare, al pari del clima, del paesaggio e delle specie arboree e animali.
Ma, secondo me, c'è un problema.
La biodiversità rappresenta certamente un valore necessario per la sopravvivenza naturale del pianeta; ma, se tale virtù viene calata banalmente nell'ambito della cultura e della politica, rischia di procurarne la fine.
Nel mondo naturale - che, infatti, è un mondo incosciente - tutto è svolto all'interno di una competizione totale ed estrema, senza nessuna mediazione intellettuale che possa pretendere un armistizio tra le specie in competizione.
Nel mondo cosciente, invece, che è quello degli uomini e delle loro idee, tutti devono infine confrontarsi con la consapevolezza generale di appartenere ad un destino comune.
Questo destino pretende che tutti gli esseri umani, nel rispetto delle loro differenze fisiche ed intellettuali, concorrano al mantenimento ed alla tutela della casa comune.
Esito, questo, che solo la pacifica convivenza tra gli abitanti può garantire e che rappresenta la finalità principale della politica nel suo senso più alto. Il confronto tra le parti, quindi, nella dimensione macro-politica, dovrebbe avvenire sulle soluzioni da adottare e non sulle finalità universalmente condivise, preservando in tal modo i principi generali che fondano la costruzione della nostra civiltà nella storia.
Quando si dimenticano tali principi, ovvero si dimentica l'universalità dei valori che costituiscono il confine etico invalicabile di ogni persona, e si pensa soltanto al benessere d'una parte dell'umanità - anche riconoscendo al proprio interno tali diritti inviolabili ma limitatamente al solo gruppo di appartenenza - si esce dall'ambito generale della politica, intesa come cosa pubblica (res publica), per entrare di fatto in una dimensione privatistica del bene collettivo. E questo avviene anche in contesti nazionali e perfino minori, quando si scambia il volere d'una maggioranza di gruppo per quello di tutta la sua popolazione. E dove c'è privato, fatalmente, c'è necessità d'un padrone, che in politica si chiama leadership.
L'idea di nazione, motore del sentimento di appartenenza ad un'entità statistica definita principalmente da confini geografici, nata storicamente a servizio di poche famiglie regnanti, fino alle rivoluzioni americana e francese ha ispirato e retto ogni teoria sulla gestione del potere e sulla legittimità dei suoi privilegi di casta. Teoria che ancora oggi sostiene gli ideali di coloro che propongono il primato delle sovranità nazionali, auspicando la chiusura verso tutte le contaminazioni esterne al proprio ambito sociale e culturale.
Tema, questo, molto attuale, che vede le odierne destre “sovraniste” ambire al ponte di comando. La nazione, infatti, per costoro, pare essere l'unico totem teleologico al quale riferire il benessere collettivo, ponendo l'esaltazione della nazione sopra e prima d'ogni altro valore comune.
L'avversione verso le aperture degli scambi ne è l'espressione più evidente.
L'avversione verso le imprese che hanno strutture sovranazionali, tanto forte da reintrodurre dazi e strumenti di protezione interna, ha come scopo la tutela del benessere locale, circoscritto ad ambiti sempre più ristretti, settari e faziosi, ben sapendo che i benefici sul piano globale che l'apertura dei mercati ha prodotto sono grandemente superiori, sul piano etico, al relativo sacrificio richiesto ai paesi più fortunati.
Se è pur vera l'obiezione, infatti, che sacche di povertà estrema si annidano e crescono anche all'interno degli stati più ricchi ed evoluti, la responsabilità di questi squilibri, come sostenuto da studi economici recenti, non va addebitata all'apertura dei mercati ma alla cattiva redistribuzione della ricchezza interna di ogni paese. Nessuno, infatti, può negare lo scarto spropositato tra la ricchezza dei paesi appartenenti al
G8 e gli ultimi del pianeta, che sono circa un terzo della popolazione mondiale, che devono sopravvivere, quando ci riescono, con meno di un dollaro al giorno a persona. Per questa ragione credo che occuparsi delle ragioni della povertà del proprio ambito riguardi soprattutto la distribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali, mentre pretendere, per ragioni demagogiche, un'analogia o un confronto con le parti di mondo ancora ridotte alla fame appaia perlomeno irriverente se non ingiurioso.
Altro tema sono le conseguenze di quello che viene definito dal mondo dell'economia col termine
globalizzazione, che vengono addebitate impropriamente ad un'improvvida apertura dei mercati. Anche in questo caso, il peccato originale sta nella mancanza di strumenti sovranazionali coraggiosi che possano competere con la dimensione planetaria delle aziende maggiori, alcune addirittura più ricche e potenti di molti stati sovrani, anche molto evoluti. Ovviamente, l'adozione di tali strumenti necessita dell'abbandono di vincoli protezionistici nazionali, in tal modo favorendo la permeabilità dei mercati in entrata ed in uscita e il bilanciamento dei prezzi al consumo; ma favorendo, soprattutto, la forza contrattuale per imporre limiti e regole che salvaguardino i singoli paesi da una indifferibile e altrimenti ineludibile sudditanza economica.

2

Ho volutamente introdotto il tema della globalizzazione perché al suo interno è possibile riconoscere critiche provenienti da destra e altre da sinistra.
Concetti come la sacralità dei confini e la conseguente necessità di costruire muri a sua difesa sono riferibili alle destre in tutto il mondo e in tutti i tempi. Senonché i muri bloccano il transito in entrata, ma anche in uscita, dove molti imprenditori, anche quelli che sostengono la politica delle barriere, hanno necessità di transitare le loro merci. Se da un lato la chiusura può proteggere la produzione indigena dalla concorrenza esterna, non c'è ragione per cui le nostre merci, per le nostre stesse ragioni, debbano poter essere invece accettate da chi sta oltre i nostri confini.
Quindi, la creazione di un regime esclusivo, chiuso verso l'esterno, se rimane un concetto fortemente ispirato da un pensiero di destra, può contenere al suo interno molti soggetti che invece aspirano all'apertura, che è sostanzialmente un pensiero di sinistra.
Parimenti, nel mondo della sinistra, esistono larghe frange di resistenza all'apertura dei mercati, palesemente schierate contro l'internazionalizzazione della cultura e delle idee, tradendo in tal modo un atteggiamento tipico della destra.
Lo stesso vale per il concetto della conservazione e del recupero dei valori tradizionali contro il pensiero unico dell'internazionalismo, tipicamente riferibile alla destra ma, negli ultimi trent'anni, portato come bandiera dall'intellettualismo di sinistra.
Altro esempio riguarda la cultura alimentare. Molti anni fa nacque, proprio qui nella mia regione, un movimento indipendente che promuoveva un'alimentazione tradizionale in contrasto con le mode alimentari proposte dalla grande distribuzione. Un'iniziativa tutta interna a personaggi riferibili al mondo della sinistra, pur essendo lo spirito conservativo e fondamentalmente reazionario tipico delle idee di destra. La teoria autarchica che viene proposta è arrivata recentemente a teorizzare il consumo dei prodotti agricoli locali, nei quali venga annullata la distanza tra produttori e consumatori, stabilendo il primato del valore territoriale rispetto a quello della qualità intrinseca del bene. Una famosa azienda di promozione dei prodotti italiani, dovendo piazzare il meglio della produzione agricola nazionale all'estero, si scontrò ovviamente con la teoria suddetta, incontrando l'evidente paradosso di dover vendere a distanza prodotti che proprio della lontananza del consumatore chiedevano l'annullamento.
Il paradosso, in questo caso, non poteva non creare divario tra i due soggetti, pur conservandoli all'interno di una dichiarata partecipazione dell'idea di sinistra.

Ho riportato questi esempi molto pratici per mettere in luce quanta comunanza di sentimento e sensibilità ci possa essere pur appartenendo a schieramenti ufficialmente opposti. Questo fatto, inoltre, dimostra che, come sostengono posizioni ideali oggi largamente condivise, i problemi non sono né di destra né di sinistra, ma non per questo credo che siano spariti o debbano dissolversi pensieri e sensibilità di destra e di sinistra.
Esiste, infatti, un modo di affrontarli che è di destra ed un modo che è di sinistra, i quali a volte, come detto, convivono nello stesso gruppo se non nella stessa persona.
Dichiarare il superamento di posizioni così tanto radicate nelle persone è sicuramente un errore superficiale che tradisce la natura retorica e populistica di coloro che la propugnano.
Nel lungo cammino della civiltà (che personalmente faccio fatica a considerare esclusivamente occidentale) abbiamo assistito a una lenta ma progressiva liberazione ed autodeterminazione degli individui mediante continue conquiste civili, non sempre sociali, con cui si sono costruiti manifesti, proclami e dichiarazioni universalmente condivisibili. Dove queste hanno trovato applicazione la convivenza è migliorata e la vita di tutte le persone ha acquisito un valore preminente. Queste conquiste, è un dato storico, sono state ottenute con battaglie che intendevano aprire i confini, o del proprio paese, del proprio stato sociale, o semplicemente della propria esperienza umana; quindi battaglie fondamentalmente di sinistra, malgrado sia state combattute anche da persone che si consideravano convintamente di destra.
Diciamo infine che pretendere di abbandonare i concetti ideali di destra e sinistra considerandoli superati, conviene soprattutto al pensiero di chi appartiene fondamentalmente e profondamente alla destra conservatrice.

mercoledì 31 luglio 2019

Storia e memoria

[su antiTHeSi.info - Storia (5)]

Disegno di Mordillo

C'è stato un periodo abbastanza lungo della nostra recente storia nel quale il pensiero è stato così debole d'aver perso il senso del ridicolo.
È il periodo che per gli storici va sotto il nome di Postmoderno, che dalla metà degli anni settanta del novecento, periodo in cui il filosofo francese Jean-François Lyotard concepisce e pubblica La condition postmoderne, si trascina fino oltre la fine del secolo.

L'esito finale di questo melodramma, grave ma non serio, lo stiamo vivendo nella situazione politica e morale attuali, che non provano nemmeno la vergogna della propria disumanità.
Quando, nei primi anni ottanta, il concetto di memoria ha cominciato a sostituire quello di storia – storia intesa come sistema coerente di fatti ed azioni teleologicamente determinate ad ottenere un esito ideologico – prima in filosofia e poi in architettura, tale concetto ha iniziato un'opera di distruzione dalle fondamenta dei principi che hanno ispirato il movimento moderno della prima metà del novecento.

Favorire l'esaltazione e la preminenza di un concetto culturale come la memoria, concetto d'uso e riferimento preminentemente personali che la teoria postmoderna iscrive erroneamente non più solo agli individui ma alla collettività, se inizialmente gratificava una diffusa avversione alla omologazione d'un pensiero unico ed esclusivo (il concetto di verità escludendo per logica ogni tesi contraria o difforme) sul piano filosofico prima, e su quello architettonico dopo, col tempo assisteva inerme alla progressiva decadenza delle idee che sostenevano ogni trasporto dal piano personale della memoria a quello collettivo. Senza i limiti e i paletti della logica rigorosa, che sola può essere strumento di condivisione universale, e per questa ragione trascurata dai movimenti post-ideologici, ogni teoria tende, per natura, come tutte le cose del mondo, al degrado. Tende quindi, esauriti i proclami e gli entusiasmi degli albori, ad alimentarsi da fonti sempre meno nobili ed attendibili, nel nostro caso riferendo l'oggetto della memoria a periodi e situazioni intellettualmente poco interessanti e vagamente convincenti. Quando ognuno si crede legittimamente autorizzato a innalzare la propria esperienza tribale al piano della verità storica , gli esiti collettivi saranno sicuramente mediocri e non veritieri rispetto all'idea di storia quale ci è stata tramandata dagli storici di professione. L'idea di localismo, se da un lato può fornire spunto per una riflessione sul valore della diversità quale motore d'evoluzione, dall'altro, se isolata da un contesto universale e idealizzata come simbolo di appartenenza autonoma ed esclusiva, non può che ridursi ad un malinconico totem a difesa d'una pseudo-identità traballante.
L'esaltazione della memoria produce, quindi e infine, l'irrisione della storia. Diviene parodia tragicomica del potere, incurante delle sofferenze che ha causato nel suo farsi racconto.
Ci sono due aspetti della storia che non andrebbero mai dimenticati. Il primo è quello che la vicenda storica ci riguarda tutti personalmente, per discendenza, perché qualsiasi momento passato che noi possiamo rileggere o immaginare, già in quel tempo viveva un nostro antenato. Il secondo è che, se siamo qui a parlarne, noi siamo sopravvissuti a quei momenti, e quindi, per tal ragione, la narrazione storica non può essere per noi un modello da seguire ma un esempio da evitare. La storia, in quanto realtà deducibile da fatti certificati e da testimonianze autentiche, non può dirci cosa dovremo fare, ma può dirci cosa NON dovremo fare. Per questo, compito principale degli storici, è proteggere la storia dagli assalti della memoria. Compito che dovrebbe essere anche quello degli architetti, perché l'architettura è arte pubblica, motore di consenso. Non va mai dimenticato che l'architettura, che l'uomo vive e frequenta, forma le coscienze più d'ogni altra arte. L'attenzione enfatizzata verso qualsiasi edificio delle tradizioni costruttive locali, oltre a pretendere la propria conservazione documentale, ha preteso di determinare i contesti che hanno dato luogo a intere parti urbane, secondo una banale idea di ambientamento che ha confuso l'architettura con la scenografia. Privilegiare i rapporti esterni rispetto alla libera distribuzione degli spazi vissuti, ha riportato l'architettura alla manualistica ottocentesca, costringendola dentro schemi elementari desueti. Ma il danno principale è stato quello relativo al linguaggio, preteso ed imposto secondo criteri di omologazione e appartenenza. Dialetti che alla fine, dovendo i progetti confrontarsi con le nuove tecnologie costruttive ed le nuove necessità abitative,  sono degenerati nel più farsesco dei gramelot. L'architettura deve invece abituarci alla diversità, alle differenze, alla tolleranza (che sarà anche una brutta parola ma, in democrazia, è indispensabile). Il contrario del rigore e dell'intolleranza verso la diversità che in questi molti anni hanno riempito la testa e formato le coscienze di quei funzionari che hanno in mano il destino urbanistico nazionale.


Alessandro Barbero | “Storia e memoria” UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL PIEMONTE ORIENTALE DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI LETTERE, FILOSOFIA, LINGUE



venerdì 5 luglio 2019

La propaganda è comunicazione deformata

Tra un po' di tempo si avranno le prove della regia che tiene i fili dei due burattini che ci governano. Tutto sta accadendo sul web e sui social.
La società è antropologicamente e storicamente divisa in gruppi omogenei  per cultura e sensibilità, che sfociano nella  condivisione di  opinioni all'interno degli stessi. Questo è il motivo della nascita dei partiti (che vuol dire di parte). Un fenomeno, quindi, che esiste da sempre e che tende ad includere persone con caratteristiche intellettuali e culturali affini, nei limiti fisici dello spazio e del tempo.
Con l'avvento del web, essendo l'informatica strumento di comunicazione che ha come limite il linguaggio e non la condizione  geografica - poiché  non ci si deve incontrare fisicamente - il fenomeno si è ampliato enormemente. Senza limiti fisici, l'appartenenza ai gruppi può assumere proporzioni numericamente consistenti e costituire base per un consenso importante.
Dentro questa logica, diventa possibile drogare un sistema di relazioni sociali naturalmente sconnesso ed esclusivo (che esclude), promuovendo fatti che appartengono sì alla realtà oggettiva, ma amplificati e distorti al fine di produrre una percezione degli avvenimenti allucinata ma condivisa all'interno del gruppo.
L'abilità di chi intende trarre il massimo consenso da questa nuova condizione sta nel tenere i gruppi separati, in modo che non si abbiano elementi di crisi dovuti al confronto esterno. A questo si perviene  difendendo i confini culturali del gruppo con la violenza verbale e la delazione.  Anche questi artifici risalgono agli albori della storia politica ma, grazie alla potenza dello strumento comunicativo, oggi accrescono particolarmente la loro efficacia.
I partiti politici tradizionali sono in crisi perché fondano ancora la loro organizzazione su luoghi fisici e gerarchie costose. La presenza sul territorio, in un mondo in cui informazione e confronto avvengono nell'etere, tra l'altro in tempi reali, senza limiti di spazio e con costi enormemente contenuti, non ha più molto senso. I notiziari televisivi, un tempo fonte di obiettività dell'informazione (anche grazie al controllo di partiti politici antagonisti) oggi pescano e propongono più del 50% delle notizie dal mondo dei social network. Questo ha frammentato anche l'informazione televisiva e l'ha modulata in favore di strategie ibride che, se da una lato hanno necessità di maggiore audience e per questa ragione dovrebbero tendere alla neutralità , dall'altro devono giustificare l'accesso al web e il loro coinvolgimento nella formazione di consenso politico verso un gruppo preciso. Questo  è il vero segnale che occorre un cambiamento sostanziale e strutturale di strategia organizzativa della comunicazione.
Nel web coesistono in un'unica rete mondi separati che non si confrontano ma si scontrano, dove, per avere successo, occorre abbassare il livello della contesa per coinvolgere il numero massimo di persone per poter organizzarne le opinioni, per semplificarle, deformarle e incanalarle verso una linea di conformità collettivamente capita e condivisa da tutti gli appartenenti al gruppo.
In un mondo di massa, si sa, le logiche vincenti sono quelle proposte dal marketing.
Occorre dire che, al confronto col web, il marketing pare stare su un livello qualitativo più evoluto  e meno banale. Ma il web è solo all'inizio e, se si ricorda l'avvento dei prodotti di massa sul mercato negli anni del boom economico, il successo gratificava sicuramente i prodotti di bassa qualità ma anche di basso costo. Nei decenni la qualità media dei prodotti è cresciuta grazie alla concorrenza e al libero confronto. Concorrenza e confronto che, nella condizione attuale, rappresentano il nemico principale di ogni strategia della comunicazione politica di massa vincente.

Sandro Lazier

giovedì 6 giugno 2019

Un'acuta e importante riflessione di Vilma Torselli

Sempre in tema di arte voglio riportare il commento di Vilma Torselli ad un articolo apparso su antiTHeSi.info il 27 luglio 2011 dal titolo Estetica dell'abuso.
L'articolo elogiava la ricerca dell'artista albese Eugenio Tibaldi che allora risiedeva a Napoli. Periodo sicuramente fertile per la ricerca di questo artista/architetto.





Vilma Torselli è architetto, esperta d'arte contemporanea, autrice del sito  

Sandro, mi sono divertita molto a leggere l’articolo ed anche a documentarmi in rete su questo artista, strano personaggio di cuneese trapiantato al sud, che, come tutti gli artisti, gode del privilegio di poter essere irrazionale, utopista, sovversivo, visionario, provocatorio, anarchico, superfluo.
Certo, se un progettista, architetto o ingegnere o geometra, avesse distribuito agli utenti un questionario come quello di Tibaldi come base per un reale progetto architettonico, sarebbe stato gentilmente invitato a recarsi presso il più vicino centro di igiene mentale, ma Tibaldi non si inserisce in alcuna categoria, quindi segue le procedure che crede. E lui sa che non dovrà progettare veramente quell’improbabile condominio, quindi provoca, perché lui può farlo, perché lui è un artista, mica un architetto, il suo ‘mestiere’ è provocare, non fare case. L’eterogenea schiera di condòmini del suo utopic building probabilmente è la stessa che si siede attorno alla sua tabula rasa portandosi da casa la sedia ed inscenando attorno al tavolo una sorta di happening dell’arredamento, o la stessa armata brancaleone che costruisce in tempo record una casa bifamiliare abusiva neanche peggio di quelle erette con tutti i sigilli dell’ufficialità.

C’è una parola che accomuna tutto ciò, ed è ‘libertà’. E’ quella che si legge nell’inusuale questionario che non darà luogo ad alcun condominio ma che avrà fatto sognare qualcuno, nell’accozzaglia di sedie scompagnate dove nessuno rinuncia alla propria comodità, nel perverso efficientismo dell’illegalità, libertà dalle regole, dalle convenzioni, dalle imposizioni, dall’”apparato burocratico”, dal “minimalismo modaiolo”, dal “significato ad ogni costo”.
Da tempo l’architettura guarda all’arte con interesse, con emulazione e con dichiarata invidia, cerca di indagarne i codici linguistici aprendosi alla contaminazione ed all’interdisciplinarità, di evadere dalle imposizioni della ragione e della funzionalità per poter finalmente volare.
Gerhy o Hadid sono grandi evasori, la loro architettura artisticizzata è un tentativo continuo di sottrarsi ai condizionamenti culturali, stilistici, persino statici, opera aperta che, come l’arte, rifiuta dichiarazioni formali o funzionali definitive.
E l’arte non fa prigionieri, l’arte si lascia dietro solo cadaveri nel continuo superamento di sé, una fuga in avanti che lascia il vuoto, che ce la fa perdere di vista e quando la raggiungiamo spesso non riusciamo a riconoscerla.
Invece l’architettura, per sua stessa natura, è comunque destinata a divenire testimonianza permanente ben oltre le sue ragioni progettuali, perché nessun’altra attività umana influisce sull’ambiente e sulla qualità della vita in modo così determinante e soprattutto duraturo, perché la materia dell’architettura sopravvive alla sua stessa idea.
Quanto l’architettura è necessaria, altrettanto l’arte è inutile e proprio l’inutilità sembra essere il decisivo discrimine tra queste due discipline. Certamente anche un’architettura può essere inutile, tutte le volte che non dà “risposte convincenti ai singoli“ senza avere il coraggio di liberarsi da “generiche soluzioni generaliste autocompiacenti e auto compiaciute”, ma questo non la rende un’opera d’arte, solo una brutta architettura.

Quando tu invochi, la liberazione dell’architettura sull’esempio di un’arte che, a differenza di essa, è capace di affrancarsi dall’omologazione e dall’inscatolamento di massa affermando la priorità del singolo sulla presunta tutela “d’un astratto fine collettivo che nessuno individualmente riconosce come proprio”, quando auspichi la libertà degli architetti (e presumo anche un’adeguata capacità professionale), mi vengono in mente parole del lontano 1954, di Walter Gropius (‘Il compito dell'architetto: servire o guidare?’, Architectural Forum, New York) che sintetizzano ciò che lui definiva ‘comporre in funzione del vivere’: “l'architetto dovrebbe concepire gli edifici non come monumenti ma come asili del flusso di vita che essi debbono servire ……” , il flusso di vita, sedie scompagnate, condominii utopici, maestranze improvvisate, “le tensioni estetiche ed emotive” degli uomini che abitano l’architettura.

Per citare un ricorrente tormentone, “non servono nuove leggi, basta applicare quelle che già ci sono”, parafrasando si potrebbe dire: “non servono architetti liberi, solo architetti capaci”.
Per legge.