giovedì 6 giugno 2019

Un'acuta e importante riflessione di Vilma Torselli

Sempre in tema di arte voglio riportare il commento di Vilma Torselli ad un articolo apparso su antiTHeSi.info il 27 luglio 2011 dal titolo Estetica dell'abuso.
L'articolo elogiava la ricerca dell'artista albese Eugenio Tibaldi che allora risiedeva a Napoli. Periodo sicuramente fertile per la ricerca di questo artista/architetto.





Vilma Torselli è architetto, esperta d'arte contemporanea, autrice del sito  

Sandro, mi sono divertita molto a leggere l’articolo ed anche a documentarmi in rete su questo artista, strano personaggio di cuneese trapiantato al sud, che, come tutti gli artisti, gode del privilegio di poter essere irrazionale, utopista, sovversivo, visionario, provocatorio, anarchico, superfluo.
Certo, se un progettista, architetto o ingegnere o geometra, avesse distribuito agli utenti un questionario come quello di Tibaldi come base per un reale progetto architettonico, sarebbe stato gentilmente invitato a recarsi presso il più vicino centro di igiene mentale, ma Tibaldi non si inserisce in alcuna categoria, quindi segue le procedure che crede. E lui sa che non dovrà progettare veramente quell’improbabile condominio, quindi provoca, perché lui può farlo, perché lui è un artista, mica un architetto, il suo ‘mestiere’ è provocare, non fare case. L’eterogenea schiera di condòmini del suo utopic building probabilmente è la stessa che si siede attorno alla sua tabula rasa portandosi da casa la sedia ed inscenando attorno al tavolo una sorta di happening dell’arredamento, o la stessa armata brancaleone che costruisce in tempo record una casa bifamiliare abusiva neanche peggio di quelle erette con tutti i sigilli dell’ufficialità.

C’è una parola che accomuna tutto ciò, ed è ‘libertà’. E’ quella che si legge nell’inusuale questionario che non darà luogo ad alcun condominio ma che avrà fatto sognare qualcuno, nell’accozzaglia di sedie scompagnate dove nessuno rinuncia alla propria comodità, nel perverso efficientismo dell’illegalità, libertà dalle regole, dalle convenzioni, dalle imposizioni, dall’”apparato burocratico”, dal “minimalismo modaiolo”, dal “significato ad ogni costo”.
Da tempo l’architettura guarda all’arte con interesse, con emulazione e con dichiarata invidia, cerca di indagarne i codici linguistici aprendosi alla contaminazione ed all’interdisciplinarità, di evadere dalle imposizioni della ragione e della funzionalità per poter finalmente volare.
Gerhy o Hadid sono grandi evasori, la loro architettura artisticizzata è un tentativo continuo di sottrarsi ai condizionamenti culturali, stilistici, persino statici, opera aperta che, come l’arte, rifiuta dichiarazioni formali o funzionali definitive.
E l’arte non fa prigionieri, l’arte si lascia dietro solo cadaveri nel continuo superamento di sé, una fuga in avanti che lascia il vuoto, che ce la fa perdere di vista e quando la raggiungiamo spesso non riusciamo a riconoscerla.
Invece l’architettura, per sua stessa natura, è comunque destinata a divenire testimonianza permanente ben oltre le sue ragioni progettuali, perché nessun’altra attività umana influisce sull’ambiente e sulla qualità della vita in modo così determinante e soprattutto duraturo, perché la materia dell’architettura sopravvive alla sua stessa idea.
Quanto l’architettura è necessaria, altrettanto l’arte è inutile e proprio l’inutilità sembra essere il decisivo discrimine tra queste due discipline. Certamente anche un’architettura può essere inutile, tutte le volte che non dà “risposte convincenti ai singoli“ senza avere il coraggio di liberarsi da “generiche soluzioni generaliste autocompiacenti e auto compiaciute”, ma questo non la rende un’opera d’arte, solo una brutta architettura.

Quando tu invochi, la liberazione dell’architettura sull’esempio di un’arte che, a differenza di essa, è capace di affrancarsi dall’omologazione e dall’inscatolamento di massa affermando la priorità del singolo sulla presunta tutela “d’un astratto fine collettivo che nessuno individualmente riconosce come proprio”, quando auspichi la libertà degli architetti (e presumo anche un’adeguata capacità professionale), mi vengono in mente parole del lontano 1954, di Walter Gropius (‘Il compito dell'architetto: servire o guidare?’, Architectural Forum, New York) che sintetizzano ciò che lui definiva ‘comporre in funzione del vivere’: “l'architetto dovrebbe concepire gli edifici non come monumenti ma come asili del flusso di vita che essi debbono servire ……” , il flusso di vita, sedie scompagnate, condominii utopici, maestranze improvvisate, “le tensioni estetiche ed emotive” degli uomini che abitano l’architettura.

Per citare un ricorrente tormentone, “non servono nuove leggi, basta applicare quelle che già ci sono”, parafrasando si potrebbe dire: “non servono architetti liberi, solo architetti capaci”.
Per legge.

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