mercoledì 11 novembre 2020

Non penso, quindi intuisco


Il motore della conoscenza deve molto all’intuizione
Una definizione filosofica molto attuale che la riguarda contempla prevalentemente l’evidenza; ovvero l’aderenza di ciò che viene percepito coi sensi ad una realtà immediatamente presente e, appunto, per questa ragione, evidente.
Realtà è un termine che oggi, nella sua accezione positiva, non è più molto di moda. Viene spesso utilizzato come cartina al tornasole d’un mondo che ha nella virtualità la sua nuova dimora. Una dimora, tuttavia, che ha le sembianze più d’un oceano che d’una casa solida e sicura. Un oceano che ci affascina ma ci spaventa per la sua vastità e indeterminatezza. Perciò abbiamo ancora bisogno d’un approdo che ci riconnetta al mondo delle cose vere. Ed ecco che, malgrado le acrobazie del pensiero postmoderno, ci tocca rifare i conti con la verità.

«Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero». Chi parla è Aristotele nella Metafisica. Egli definisce la verità sul piano della pura logica. Come ci è arrivato? Con l’intuizione. 
Esempio: se “a ciò che è” do il segno [+] e “a ciò che non è” do il segno [-] metto in gioco la matematica che, notoriamente, è un sistema formale che non dice assolutamente nulla intorno alla realtà. Aristotele, nella sua espressione, annuncia semplicemente che due negazioni confermano; ovvero, moltiplicando [+] per [-] si ottiene [-] e moltiplicando [-] per [-] si ottiene [+]. Il che è la base di tutta la logica la quale, al contrario della matematica, ha molto a che fare con le cose del mondo. 

Provo ad applicare il principio. Se io chiedo, prima di una battaglia, quindi con un’importanza vitale: “l’amico di un nemico, è amico o nemico?” La logica risponde “nemico”. Infatti amico [+] confrontato con nemico [-] dà per risultato nemico [-]. Se io chiedo ora “ l’amico di un nemico di un amico di un nemico ecc…, cos’è? Amico o nemico?” La soluzione starà sempre nell’algebra. Se i segni [-] sono pari la risposta sarà [+], quindi amico. Se sono dispari la risposta sarà [-] e quindi nemico. Non è importante il numero delle relazioni.

Ebbene, questa è l’intuizione, ovvero la scoperta di un meccanismo che ci dà evidenza della realtà con immediatezza, senza ricorrere al ragionamento. Lo potrebbe fare una macchina e questo pone un serio problema per le filosofie che hanno nella ragione e nella coscienza di sé il proprio fondamento.
Ci si può chiedere ora quali ne siano gli ambiti e le implicazioni nella la vita delle persone. La risposta è che tutti gli aspetti della vita e della realtà possono essere sfera dell’intuito, nessuno escluso. 

Nelle questioni d’arte, in particolare quelle pittoriche, quando le tecniche di figurazione ricorrono a quanto comunemente viene confuso con l’estro, o l’istinto, si è sicuramente in presenza degli esiti dell’intuizione.
Quando tutti i sensi concorrono all’ideazione d’un’opera artistica, e la mente comincia il suo travaglio nella memoria e nell’immaginario alla ricerca d’una possibile scrittura, si può credere che una scintilla d’incanto venga a disporre sulla tela colori e forme, come se le stesse arrivassero dalla luna. Ma non è così. Almeno per mia esperienza personale, di fronte al foglio bianco, nel momento di massima astrazione dalle forme note che disturberebbero l’azione, non resta che l’azione. Ci si affida quindi al fare senza nessuna ragione pensata. Ci si affida ad un fare facendo che incatena le azioni le una alle altre senza un motivo apparentemente ragionato. Si è quindi totalmente in balìa dell’intuizione. Contrariamente a quello che dice il senso comune, in questo caso non siamo assolutamente ispirati ma piuttosto persi in un balletto di segni e di spazi mentali che trovano sulla tela la loro evidenza fisica e comunicativa. 

Occorre ciononostante una distinzione.
Tutta quell’arte che ha fatto del senso o del concetto la sua cifra determinante, ha interdetto l’accesso alla stessa all’intuizione, rendendo, questa, parte d’una soggettività preclusa per principio. Se l’arte è solo pensiero, l’azione che l’esprime ne può solo seguire disciplinatamente le indicazioni, senza possibilità di determinarne a sua volta il senso. L’annientamento della scrittura, come avviene con il ready-made, implica l’esaltazione dell’inutilità del gesto, della sua sfrontata banalità, a scapito dell’intuito creativo che si realizza solo mediante la scrittura. 
Così Jean Baudrillard: “ L’avventura dell’arte moderna è finita. L’arte contemporanea è contemporanea solo a se stessa. Non conosce più trascendenza verso il passato o il futuro, la sua unica realtà è quella della sua operazione in tempo reale, e del suo confondersi con tale realtà. (…)Non esiste più differenziale dell’arte. È rimasto soltanto il calcolo integrale della realtà. L’arte non è più altro, ormai, che un’idea prostituita nella sua realizzazione. (…) Basta fare del reale stesso una funzione inutile per trasformarlo in oggetto d’arte, consegnandolo all’estetica divorante della banalità.
(
J. Baudrillard - Il patto di lucidità o l’Intelligenza del Male)

Questa che ho detto è la ragione per cui un ritorno alla scrittura e alla soggettività dell’opera artistica è, secondo me, la sola via per riavviare la ricerca filologica nell’ambito delle arti figurative.
In architettura il discorso è analogo, malgrado il discrimine rispetto alle altre arti dato dalla propria caratteristica prevalentemente funzionale. 
Così Vilma Torselli: “I creatori di linguaggio sono i poeti, per me, perché non si pongono il problema "utilitaristico" di "significare" qualcosa: e quindi (aveva ragione Bruno Zevi) il linguaggio va desunto dai capolavori: il contrario non porta da nessuna parte. Non portano da nessuna parte le elaborazioni, per quanto concettualmente sofisticate, della linguistica e non porta, perciò, da nessuna parte l'idea di estrarre il linguaggio dalle opere "paradigmatiche". Cioè da prodotti correnti e mediocri.” 

I capolavori producono il linguaggio, e non viceversa; ergo, l’intuito produce il linguaggio che produce i capolavori. 
Sta di fatto che se non si libera il progetto architettonico dalla preminenza della sua funzione pratica, del suo senso, del suo significato, dei sui aspetti banali (direbbe Baudrillard), il ricorso all’intuito potrebbe essere negato dalle ragioni che ho detto prima. E allora addio capolavori. Soltanto rimettendo in causa quel meccanismo per cui azione e reazione producono un reale progresso del linguaggio si può riscattare il mondo attuale dalla mediocrità di fini e d’orizzonti che negano l’universalità dell’essere umano e dei valori culturali che lo identificano come tale. 

La funzione sociale dell’architettura, che sta principalmente nella sua condizione di arte pubblica, cioè visibile al di fuori delle fortezze museali, sarebbe pertanto strumento di educazione al rispetto e alla tolleranza verso le diversità e la ricchezza delle altre espressioni e linguaggi, oltre gli ambiti locali e nazionali. Tutto grazie all’intuizione, che è virtù al contempo personale e universale, ed alle sue preziose conseguenze.

Sandro Lazier - Piobesi d’Alba 13/03/2018

Testo originale e immagine pubblicati su  IQD


martedì 27 ottobre 2020

Lettera aperta ai sindaci

Premessa

(Langa - fotografia di Laura Malfatto)

In quest’anno surreale, nel quale sembra essere convenuta ogni sofferenza umana, sto sperimentando anche una severa vicenda esistenziale, capace di rimettere ordine nel sistema dei valori personali. Valori spesso disturbati e sedotti dall’euforia con cui si affronta e ci si difende dalla vita quando si crede, in fondo, di essere esonerati dal destino dei comuni mortali. 
Ed è questa una condizione umanamente comprensibile perché, avendo sfiorato di persona ‘l’inferno dell’assenza’ - lo posso dire non avendo, nel mio caso, nemmeno avuto la compagnia del buon Dio - l’idea della morte non mi è risultata razionalmente e completamente concepibile; pur essendo l’unica certezza della vita. 
Una condizione, quella di essere pretestuosamente immortale, che non dà motivo di distinguere tra vizi e virtù, tra valori e disvalori che, malgrado tutto, sono frequenti e che, per tale ragione, si riescono a tollerare quando gli stessi si ritrovano negli altri. Perché, infine, pur sbarcando nel più squallido dei compromessi, essendo pretestuosamente eterno, ognuno avrà sicuramente il modo di rivedere le cose e restituirle secondo i propri ideali, avendo il tempo necessario per farlo. Ma per me non è più così.
Parlo pubblicamente in questo modo, così intimamente esplicito, di me e della mia condizione, perché non sono più disposto a svendere questi ideali per nessuna ragione, nemmeno per quelle che sembrano ispirate dalla buona fede e dal buon senso. Questa, anzi, è l’unica ragione che mi ha fatto riflettere e ragionare su questioni che la mia dignità di persona non può più accettare, che riguardano tutte quelle relazioni che, per il lavoro che faccio, riguardano i piani più alti dei sentimenti, della personalità e delle sensibilità delle persone.

L’architettura e il paesaggio

(Alvar Aalto  - Villa Mairea - Noormarkku - 1937)

Il mio lavoro si occupa di architettura, scritta e disegnata, quindi di cultura, nel senso del fare e non in quello del possedere, perché trasforma la realtà e la ricrea ‘fabbricando’ il suo aspetto sulle necessità delle persone e della loro realtà contingente. Nel nostro paese, questo compito, tra architetti, ingegneri, geometri e altre categorie, ingaggia professionalmente circa mezzo milione di individui, ma non credo che la stragrande maggioranza di questi abbia coscienza della sua  dote culturale più profonda ed importante.
Cosciente, invece,  lo è sicuramente chi si è occupato e si occupa di dare un minimo di disciplina a questo mondo variegato di progettisti, più pronti a seguire ispirazioni legittimamente mercantili che umanistiche, cresciuto proporzionalmente e complice dello sviluppo economico del paese. 
Coscienza istituzionale che, dal lato della conservazione, provvede a tutelare il passato ed i documenti della sua storia, sempre più spesso in modo autoritario. Da quello della produzione, cerca di dare indirizzi capaci di guidare verso un minimo di qualità architettonica anche quei professionisti che, magari dotati di spiccate capacità tecniche, sembrano essere totalmente assenti di qualità creative. L’urbanistica, che di questo si occupa, è il sistema normativo che governa questo mondo particolarmente complicato. 
Un mondo che, anche con molte falle, ha funzionato per molti anni, ma ora sembra stanco sul piano teorico e quindi pratico, perché rigido, indolente, normativamente obeso, appagato d’essere principalmente strumento di diritto piuttosto che di architettura, ma sempre più complice di una visione banale, reazionaria, passatista e consolatoria del costruire, da anni rivolta all’esaltazione del passato come se fosse l’unico futuro possibile. L’università, da cui dipende la competenza regionale di ogni impianto urbanistico, anch’essa stravolta nella qualità della sua missione didattica da un numero esagerato di corsi e docenze non sempre all’altezza del compito, non è riuscita a conservare e rinvigorire, se non in casi rari, la carica ideale della ricerca e lo spirito innovativo che la società aveva affidato alle istituzioni incaricate di conservare e promuovere la conoscenza collettiva.
Prestigiose istituzioni si trovano, invece, a confronto con un fallimento dell’architettura diffuso, che paradossalmente è maggiore nel paese in cui lavora quasi un terzo degli architetti europei (due volte e mezzo la media europea) e con il numero più elevato di leggi e regolamenti edilizi dell’intero continente.
Fallimento che negli ultimi decenni ha nascosto il limite dei suoi progetti dietro la maschera della nobile tradizione costruttiva nazionale, della suggestione del paesaggio e della sua conservazione, della riesumazione di relitti concettuali come quello di ‘bellezza’, oppure quello di ‘italianità’, che è un concetto ideologicamente identitario, che si è rivelato inutile, dannoso e pericoloso, capace di rimettere ferocemente  in gioco il peggiore localismo e razzismo non solo urbanistico.
Questa visione miope dell’architettura, che da motore di vita è diventato effimero accessorio di arredo, luogo non più da vivere ma solo da contemplare, ha costretto ogni nuova scelta urbanistica alla revisione storica, alla pedestre adesione ad un linguaggio dato e reso immodificabile dalla sua pretestuosa e presuntuosa verità. Addirittura, la supposta modernità che molti illusi vantano nel vestire con segni attuali (minimali o razionalizzati) le forme elementari della tradizione, sembra recuperare sul fronte contemporaneo un'appartenenza teorica professionalmente allineata con i tempi. Ma si tratta solo di fuffa, di uno stile, un artificio vecchio come la storia, perché l’architettura riguarda essenzialmente la manipolazione dello spazio, fin dalle sue origini, e non la sua pelle esteriore. Essere moderno in architettura, per esempio, vuol dire mettere le finestre dove e come servono per essere liberi di guardare fuori, non per come le può vedere un turista annoiato o un intellettuale della domenica che gradirebbe, invece, prospetti ordinati e pittorescamente conseguenti. 

Cosa vale quindi?

(Pablo Picasso - Les demoiselles d’Avignon)

(Ripreso da un recente scritto di prossima pubblicazione)

Vale più la tutela del paesaggio o la libertà d’espressione delle persone che lo vivono?
Vale più il paesaggio naturale e storico del passato o quello umano, presente e contingente?
È più importante la serenità contemplativa degli intellettuali da passeggio o la necessità di stare al mondo padroni della propria vita e del proprio destino? L’arte contemporanea ha risposto alla grande a queste domande e lo ha fatto principalmente in tre modi.
Il primo sbarazzandosi dei concetti di armonia e bellezza, portando sul palcoscenico il “dolore del mondo” e le sue contraddizioni e ingiustizie, creando nuovi paradigmi estetici.
Il secondo riprendendosi il ruolo della libera seduzione, senza regole e protocolli, che non rispetta i contesti sociali e non tollera gerarchie di classe. L’arte, infatti, consente allo stalliere di fare sesso con Lady Chatterley e alle signorine di Avignon di coglionare la bellezza femminile.
Il terzo trasformando le bestemmie in preghiere, le parolacce in poesie, convertendo, come sosteneva Baudrillard, “la crisi in valore”. Le risposte, quindi, diventano semplici.
In architettura non ci può essere paesaggio che non contempli anche le persone nella loro vita e condizione presente, non solo in quella passata. In architettura il passato è letto con gli occhi dell’adesso e non può essere fine a se stesso, isolato dal contesto presente. Soprattutto non può porre condizioni al divenire.
L’architettura è soprattutto un modo di vivere e di stare al mondo secondo la propria cultura, conoscenza e ambizione. Per di più è un’arte pubblica, perché si vede anche senza entrare in un museo o leggere un libro. Per questo rappresenta il modo principale nel quale si realizza e viene espressa la misura delle libertà personali, che sono il fondamento di uno stato democratico e liberale, il quale può esistere solo riconoscendo a tutti questo diritto. In architettura nessuno è titolare del bene comune in forma autoritaria e nessuno può usare questo argomento per limitare la libertà degli altri. In architettura la libertà vale più dell’armonia, del contesto e di altre stravaganze retoriche utili solo al controllo delle nostre libertà personali.

Il caso di Serralunga d’Alba


(Ripreso da un recente scritto di prossima pubblicazione)

Tutto questo ragionamento nasce da una recente esperienza amministrativa, che per la sua superficialità ha scosso profondamente la mia dignità professionale, quella più elementare, che riguarda una ricerca lunga quasi cinquant’anni, non priva di riconoscimenti e premi, messa alla prova dalla superficialità e incompetenza di un conciliabolo di colleghi incapaci nemmeno di leggere la qualità di un progetto (e di capire che dietro ad un progetto di qualità, anche se non condiviso, c’è sempre qualità e proposta di una visione seriamente alternativa).
Non si tratta, tra  l’altro, di un grande progetto, ma di una piccola cantina in Langa. Un piccolo grande progetto per due carissimi amici, lei medico e lui avvocato a Milano, nella casa natale di lei a Serralunga d'Alba. Una piccola cantina dove la mitica vigna di Barolo ereditata dal nonno può nuovamente diventare vino dei re, grazie alla passione di Diego, mio nipote, amico di scuola della coppia.
Non è un progetto banale, quindi, ma sentito e profondamente amato. Un progetto studiato, approfondito, condiviso e desiderato, sicuramente capace di riscattare un luogo anche recentemente offeso da interventi scenograficamente scadenti, falsi ed irridenti, contrari a qualsiasi innovazione, negati a qualsiasi apertura verso un luogo di una suggestione magica, che l'intelligenza vorrebbe trasparente e non rinchiusa in un presepe ridicolmente miope ed opaco. Un progetto che non deride il passato e non ne fa la sciocca caricatura, la quale ne dovrebbe ingenuamente rappresentare la farsa. Semplicemente, delle dimore del passato agricolo, la cui miseria è stata ben descritta nella migliore letteratura italiana, ne eredita l'intelligenza delle soluzioni e delle cose materiali che le nuove tecnologie ci offrono, come sempre è avvenuto e continuerà a succedere. 
La cosa interessante è che il giudizio generico e dilettantesco della sciocca e totalmente incompetente commissione ambientale locale (e quando dico locale parlo di una commissione messa in piedi da due comuni che insieme non raggiungono i tremila abitanti) non avendo conoscenza e coscienza nemmeno della qualità del progetto, ha praticamente invitato l'amministrazione a negarne l'autorizzazione, mortificando il legittimo diritto di realizzare un sentimento molto semplice ma fondamentale: migliorare il posto che abiti lasciandolo migliore di come l'hai trovato. Ma pare che questo merito non valga le ragioni di una scelta urbanistica ormai diventata oggetto di marketing d'una scadente architettura da passeggio. Un concetto mercantile per un'economia effimera e illusoria che un piccolo virus ha messo in ginocchio nel giro di pochi mesi, mettendo in luce quanto sia sbagliato e socialmente dannoso investire il proprio futuro sul passato e la sua immagine. Per  questo triste aspetto chiedo a tutte le amministrazioni una revisione radicale della visione urbanistica futura. E chiedo che questa nuova visione tenga conto anche delle invidie professionali di colleghi in conflitto d'interessi, che perdono il loro tempo a frequentare i vari sinodi della politica di paese, dimenticando che il fine della loro missione sarebbe quello di tutelare e promuovere il miglioramento del  paesaggio.

Gli ordini che istituzionalmente governano le professioni intellettuali (per fortuna non tutte) dovrebbero prendere provvedimenti contro il diffuso mercenarismo culturale che vede ingaggiati alcuni iscritti per dare giudizi di merito sul lavoro dei colleghi, azione del tutto condannata dal codice deontologico che considera (ipocritamente) tutti gli iscritti pariteticamente sia per competenza che per valore, proibendo loro addirittura la pubblicità in forma esplicita. L'azione dei commissari, sempre ingaggiati dalla politica che usa queste forme per deresponsabilizzare i suoi dinieghi, dietro alla irresponsabilità collettiva (la responsabilità penale è solo personale) capace di un giudizio estremamente efficace tanto da intervenire nelle scelte fondamentali di progetto, offre lo spazio per azioni di concorrenza sleale di fatto immuni da responsabilità civili e penali.
L'esito del ricorso contro questi baracconi burocratici, oltre una inutile perdita di tempo, è il basso livello della qualità architettonica, costretta a tristi mediazioni imposte per riportare il costruito dentro a schemi tipologici e linguistici nei quali mediocrità e pregiudizio diventano argomenti portanti. La maggioranza dei progettisti, conoscendo i limiti e il prezzo culturale da pagare per il successo del proprio lavoro, se non hanno una spiccata personalità tendono a produrre proposte già mortificate sul piano architettonico, capaci per questo di quietare le eventuali invidie e speculazioni concorrenti.
Sarebbe bene pertanto che, chi intende partecipare a commissioni nelle quali sono richiesti giudizi di merito sul lavoro dei colleghi, si autosospenda dall’ordine.


Dopo il Covid-19

(Pasqua 2020 - Piazza S. Pietro vuota)

Cosa ci lascia la pandemia recente sul piano generale e su quello specifico della progettazione architettonica? Ci lascia il totale fallimento del localismo e dei valori ad esso legati, come il concetto di identità (che infine significa riconoscimento all’interno di un gruppo geografico), la cui diversità culturale portata in primo piano e sopra qualsiasi altro valore sovranazionale è crollata sotto l’unico principio riconosciuto globalmente, che è quello della vita e dell’integrità civile di tutte le società, in cui solo la solidarietà e lo scambio delle conoscenze può essere salvezza per tutti. Decenni di un pensiero stanco, svuotato di ogni verità, ha condannato l’idea stessa di verità a opinione, governata da nostalgie reinterpretate sul proprio vissuto, come se il presente ne fosse solo la legittima e finale conseguenza. Ma questa inattesa crisi mondiale ha dimostrato esattamente il contrario. Se arriverà la salvezza, tramite un vaccino, nessuno si chiederà e valuterà la stessa sulle origini culturali, ma saprà che sarà il prodotto di uno scambio di conoscenze e ricerche che appartengono all’umanità intera, senza etichette e colori della pelle. La verità resiste nei momenti importanti e, malgrado le manipolazioni che vorrebbero stravolgerla o sopprimerla, sa sempre riporre infine le assurdità dell’umanità nel ripostiglio delle follie della storia. 
La verità, che nei momenti della storia recente è stata corrotta e falsificata, seppure derisa e delegittimata dalla sua mansione di guida delle migliori speranze e dei migliori progetti del nostro futuro, ha ritrovato alternativa e vita nei momenti in cui il futuro ha mostrato la sua prova più grave, spogliandosi degli orpelli esistenziali per recuperare la sua vitalità più profonda. Diceva Baudrillard: “...è facile uccidere la verità ma è impossibile farne sparire il cadavere”. 

Finale

(Habitat 67 - Moshe Safdie - Montreal - 1967)

Alla natura, infine, cinicamente non importa nulla della bellezza.
Se qualche paesaggio ci appare particolarmente seducente e rapisce il nostro sentimento, questo succede perché fondamentalmente ne siamo funzione e riconosciamo in lui gli stessi meccanismi interpretativi che compongono il nostro giudizio estetico.
Questo tipo di giudizio, di cui l’arte è interprete da sempre, fin dai dipinti rupestri, ha viaggiato nei millenni arrivando alla condizione attuale, nella quale essa non si riconosce più nella bellezza del creato ma nel suo valore antagonista in termini di espressione estetica ed artistica.
Per questa ragione, essendo parte di questa stessa sensibilità, anche l’architettura si pone in contrapposizione con la dote originale dell’arte, tanto che discriminiamo radicalmente tra un giardino e un edificio che gli vuole assomigliare. Per la condivisione ideale delle stesse ragioni artistiche, se alla natura non importa della bellezza, all’architettura, in fondo, nemmeno.
Cosa vuol dire, quindi, quando parliamo di ‘bellezza’ dell’architettura?
Nulla, se riferiamo il concetto agli stessi argomenti che ci fanno amare il creato o l’armonia con lo stesso. Molto, invece, se lo riferiamo alle ricerche e alle prospettive dell’arte più evoluta, l’unica che ci serve per l’indispensabile progresso dell'umanità. Arte, in particolare, che per sua vocazione è costretta a inseguire il mondo per ‘formare il gusto’, e farlo senza la fiacca di pensieri, come la bellezza canonica, l’equilibrio e la misura, che noi erroneamente pretendiamo riferire all’armonia del cosmo, che le farebbero scontrare con la loro paradossale antinomia. 
L’architettura non insegue la ‘bellezza’ ma, come l’arte, cerca di costruirla, pur avendo qualità diverse. Qualità che però non sono solo contemplative ma che coinvolgono anche le sue funzioni, indirizzando il giudizio estetico verso considerazioni più articolate che richiedono conoscenze più ragionate.
Questo testo, in fondo, vuole invitare le varie amministrazioni, a tutti i livelli competenti, a considerare i veri valori che la nostra storia dell’arte ha consegnato al nostro tempo, senza rincorrere strategie che, con il suo vero fine, non hanno nulla a che fare. Strategie che non rincorrono la realizzazione di un ideale universale ma solo particolare e mercantile, nel quale il beneficio di pochi intende imporre la propria volontà sul principio di tutti. Il principio rimane quello della ‘bellezza’ intesa come espressione artistica al livello più alto. Non è quello di un concetto che contempli armonia o rispetto o espressioni di sola osservazione.  Esiste una sostanza nell’arte contemporanea che si è manifestata con la liberazione dal suo vincolo solo estetico, postando le cose peggiori del mondo nella cornice di una tela, trasformando il peggio nel meglio delle società disposte a pagare il prezzo della loro legittimazione. Il risultato è l’estetica nuova che, in architettura, lo ripeto, permette a tutti di porsi, muoversi e giacere in casa guardando dove si vuole.






lunedì 13 aprile 2020

Edgar Morin: "Dobbiamo vivere nell'incertezza"



Intervista del 06.04.2020, di Francis Lecompte
Traduzione  di Sandro lazier



 (qui per stampare l'articolo in PDF)


La pandemia di coronavirus ha brutalmente riportato la scienza al centro della società. La società emergerà trasformata?

Edgar Morin: Quello che mi colpisce è che gran parte del pubblico considerava la scienza come il depositario di verità assolute, di affermazioni inconfutabili. E tutti furono rassicurati nel vedere che il presidente si era circondato di un consiglio scientifico. Ma cosa è successo? Molto rapidamente, è diventato chiaro che questi scienziati difendevano punti di vista molto diversi e talvolta contraddittori, sia sulle misure da adottare, sia sui possibili nuovi rimedi per rispondere all'emergenza, sulla validità di questo o quel farmaco, sulla durata delle sperimentazioni cliniche da intraprendere... Tutte queste controversie introducono il dubbio nella mente dei cittadini.

Sta dicendo che il pubblico rischia di perdere fiducia nella scienza?

E.M. : No, se capiscono che la scienza vive e progredisce attraverso la polemica. I dibattiti sulla clorochina, per esempio, hanno sollevato la questione dell'alternativa tra urgenza o cautela. Il mondo scientifico aveva già sperimentato forti polemiche quando l'AIDS apparve negli anni Ottanta. Ma ciò che i filosofi della scienza ci hanno mostrato è proprio che la polemica è parte integrante della ricerca. La ricerca ne ha addirittura bisogno per progredire.
Purtroppo, pochissimi scienziati hanno letto Karl Popper, che ha stabilito che una teoria scientifica è tale solo se può essere confutata, Gaston Bachelard, che ha sollevato il problema della complessità della conoscenza, o Thomas Kuhn, che ha mostrato chiaramente come la storia della scienza sia un processo discontinuo. Troppi scienziati non sono consapevoli del contributo di questi grandi epistemologi e lavorano ancora da un punto di vista dogmatico.

La crisi attuale cambierà questa visione della scienza?

E.M. : Non posso prevederlo, ma spero che serva a rivelare quanto la scienza sia più complessa di quanto vorremmo pensare - sia che ci schieriamo con chi la vede come un catalogo di dogmi, sia con chi vede gli scienziati solo come tanti virus Diafo (un ciarlatano nell'immaginario Le Malade di Molière) che si contraddicono continuamente…
La scienza è una realtà umana che, come la democrazia, si basa sul dibattito delle idee, anche se le sue modalità di verifica sono più rigorose. Nonostante ciò, le grandi teorie accettate tendono ad essere dogmatiche, e i grandi innovatori hanno sempre avuto difficoltà a far riconoscere le loro scoperte. L'episodio che stiamo vivendo oggi può quindi essere il momento giusto per sensibilizzare i cittadini e gli stessi ricercatori sulla necessità di comprendere che le teorie scientifiche non sono assolute, come i dogmi delle religioni, ma biodegradabili…

Il disastro sanitario, o la situazione di contenimento senza precedenti che stiamo vivendo: secondo lei, cosa colpisce di più?

E.M. : Non c'è bisogno di stabilire una gerarchia tra queste due situazioni, poiché sono state collegate in ordine cronologico, portando a una crisi che può essere descritta come una crisi di civiltà, perché ci costringe a cambiare il nostro comportamento e la nostra vita, sia a livello locale che globale. Tutto questo è un insieme complesso. Se vogliamo guardarla da un punto di vista filosofico, dobbiamo cercare di fare il collegamento tra tutte queste crisi e riflettere soprattutto sull'incertezza, che è la sua caratteristica principale. 
Ciò che è molto interessante della crisi del coronavirus è che non abbiamo ancora alcuna certezza sull'origine stessa di questo virus, né sulle sue diverse forme, sulle popolazioni che attacca, sul suo grado di nocività... Ma stiamo anche vivendo una grande incertezza su tutte le conseguenze dell'epidemia in tutte le aree, sociali ed economiche.

Ma come pensa che queste incertezze costituiscano il legame tra tutte queste crisi?

E.M. : Perché dobbiamo imparare ad accettarli e a vivere con loro, mentre la nostra civiltà ci ha instillato la necessità di certezze sempre maggiori sul futuro, spesso illusorie, a volte frivole, quando ci è stato accuratamente descritto ciò che ci accadrà nel 2025! L'arrivo di questo virus dovrebbe ricordarci che l'incertezza rimane una parte inespugnabile della condizione umana. Tutte le assicurazioni sociali a cui potete iscrivervi non potranno mai garantire che non vi ammalerete o che sarete felicemente sposati! Cerchiamo di circondarci di quante più certezze possibili, ma vivere significa navigare in un mare di incertezza, attraverso isolotti e arcipelaghi di certezze su cui portiamo le nostre provviste... 

È questa la tua regola di vita?

E.M. : È piuttosto il risultato della mia esperienza. Ho assistito a così tanti eventi imprevisti nella mia vita - dalla resistenza sovietica negli anni '30 alla caduta dell'URSS, per parlare solo di due improbabili eventi storici prima che accadessero - che fa parte del mio modo di essere. Non vivo nell'ansia permanente, ma mi aspetto che si verifichino eventi più o meno catastrofici. Non dico di aver previsto l'attuale epidemia, ma da diversi anni dico, per esempio, che con il degrado della nostra biosfera, dobbiamo essere preparati ai disastri. Sì, questo fa parte della mia filosofia: "Aspettatevi l'imprevisto."
Inoltre, mi preoccupa il destino del mondo dopo aver capito, leggendo Heidegger nel 1960, che stiamo vivendo nell'era globale, e poi nel 2000 che la globalizzazione è un processo che può causare tanto male quanto bene. Osservo anche che lo scatenarsi incontrollato dello sviluppo tecno-economico, spinto da una sete illimitata di profitto e favorito da una politica neoliberale generalizzata, è diventato dannoso e provoca crisi di ogni tipo. Da quel momento in poi, sono intellettualmente pronto ad affrontare l'imprevisto, ad affrontare gli sconvolgimenti.

Rimanendo in Francia, come giudica la gestione dell'epidemia da parte delle autorità pubbliche?

E.M. : Mi dispiace che certe esigenze siano state negate, come l'uso di maschere, solo per... nascondere il fatto che non ce n'erano! E' stato anche detto: i test sono inutili, solo per nascondere il fatto che non li avevamo neanche noi. Sarebbe umano riconoscere che sono stati commessi degli errori e che li correggeremo. Responsabilità significa riconoscere i propri errori. Detto questo, ho notato che, nel suo primo discorso sulla crisi, il presidente Macron non ha parlato solo di aziende, ma anche di dipendenti e lavoratori. Questo è un primo cambiamento. Speriamo che si liberi finalmente dal mondo della finanza: ha anche accennato alla possibilità di cambiare il modello di sviluppo?

Ci stiamo quindi muovendo verso un cambiamento economico?

E.M. : Il nostro sistema basato sulla competitività e sulla redditività ha spesso gravi conseguenze sulle condizioni di lavoro. La pratica massiccia del telelavoro, conseguenza del confinamento, può contribuire a cambiare il funzionamento di aziende ancora troppo gerarchiche o autoritarie. La crisi attuale può anche accelerare il ritorno alla produzione locale e l'abbandono dell'intera industria dell'usa e getta, restituendo così lavoro agli artigiani e alle botteghe locali. In un momento in cui i sindacati sono molto deboli, sono tutte queste azioni collettive che possono avere un impatto sul miglioramento delle condizioni di lavoro. 

Stiamo vivendo un cambiamento politico, dove il rapporto tra individuo e collettivo si sta trasformando?

E.M. : Gli interessi individuali hanno dominato tutto, e ora la solidarietà si sta risvegliando. Guardate il mondo ospedaliero: questo settore era in uno stato di profondo dissenso e malcontento, ma di fronte all'afflusso di malati, sta dimostrando una straordinaria solidarietà. Anche quando la popolazione era confinata, lo capivano quando applaudivano, la sera, tutte quelle persone che si dedicano e lavorano per loro. Questo è senza dubbio un momento di progresso, almeno a livello nazionale.
Non dico che sia saggio restare nella propria stanza tutta la vita, ma se non altro per il modo in cui consumiamo o mangiamo, questo confinamento è forse il momento di liberarsi di tutta questa cultura industriale, di cui conosciamo i vizi.
Purtroppo non si può parlare di un risveglio della solidarietà umana o planetaria. Eppure noi esseri umani di tutti i paesi abbiamo già affrontato gli stessi problemi di fronte al degrado ambientale o al cinismo economico. Poiché oggi ci troviamo tutti confinati, dalla Nigeria alla Nuova Zelanda, dovremmo renderci conto che i nostri destini sono legati, che ci piaccia o no. Questo sarebbe un momento per rinfrescare il nostro umanesimo, perché finché non vediamo l'umanità come una comunità di destino, non possiamo spingere i governi ad agire in modo innovativo.

Cosa possiamo imparare da lei come filosofo per superare questi lunghi periodi di reclusione?

E.M. : È vero che per molti di noi che vivono gran parte della nostra vita lontano da casa, questo confinamento improvviso può essere un terribile inconveniente. Penso che possa essere un'occasione per riflettere, per chiederci cosa è frivolo o inutile nella nostra vita. Non dico che sia saggio restare nella propria stanza tutta la vita, ma anche se si tratta solo del modo in cui mangiamo o beviamo, potrebbe essere il momento di liberarsi di tutta questa cultura industriale di cui conosciamo i vizi, il momento di disintossicarci da essa. È anche un'occasione per prendere coscienza in modo permanente di queste verità umane che tutti conosciamo, ma che sono represse nel nostro subconscio: che l'amore, l'amicizia, la comunione e la solidarietà sono ciò che compongono la qualità della vita.



(segue il testo originale in francese pubblicato sul giornale del CRNS francese)

Edgar Morin: «Nous devons vivre avec l'incertitude»
06.04.2020, par Francis Lecompte


La pandémie du coronavirus a remis brutalement la science au centre de la société. Celle-ci va-t-elle en sortir transformée ?

Edgar Morin : Ce qui me frappe, c’est qu’une grande partie du public considérait la science comme le répertoire des vérités absolues, des affirmations irréfutables. Et tout le monde était rassuré de voir que le président s’était entouré d’un conseil scientifique. Mais que s’est-il passé ? Très rapidement, on s’est rendu compte que ces scientifiques défendaient des points de vue très différents parfois contradictoires, que ce soit sur les mesures à prendre, les nouveaux remèdes éventuels pour répondre à l’urgence, la validité de tel ou tel médicament, la durée des essais cliniques à engager… Toutes ces controverses introduisent le doute dans l’esprit des citoyens. 

La crise actuelle sera-t-elle de nature à modifier cette vision de la science ?

E.M. : Je ne peux pas le prédire, mais j’espère qu’elle va servir à révéler combien la science est une chose plus complexe qu’on veut bien le croire – qu’on se place d’ailleurs du côté de ceux qui l’envisagent comme un catalogue de dogmes, ou de ceux qui ne voient les scientifiques que comme autant de Diafoirus (charlatan dans la pièce Le Malade imaginaire de Molière, Ndlr) sans cesse en train de se contredire…
La science est une réalité humaine qui, comme la démocratie, repose sur les débats d’idées, bien que ses modes de vérification soient plus rigoureux. Malgré cela, les grandes théories admises tendent à se dogmatiser, et les grands innovateurs ont toujours eu du mal à faire reconnaitre leurs découvertes. L’épisode que nous vivons aujourd'hui peut donc être le bon moment pour faire prendre conscience, aux citoyens comme aux chercheurs eux-mêmes, de la nécessité de comprendre que les théories scientifiques ne sont pas absolues, comme les dogmes des religions, mais biodégradables...

La catastrophe sanitaire, ou la situation inédite de confinement que nous vivons actuellement : qu’est-ce qui est, selon vous, le plus marquant ?

E.M. : Il n’y a pas lieu d’établir une hiérarchie entre ces deux situations, puisque leur enchaînement a été chronologique et débouche sur une crise qu’on peut dire de civilisation, car elle nous oblige à changer nos comportements et change nos existences, au niveau local comme au niveau planétaire. Tout cela est un ensemble complexe. Si on veut l’envisager d’un point de vue philosophique, il faut tenter de faire la connexion entre toutes ces crises et réfléchir avant tout sur l’incertitude, qui en est la principale caractéristique. 
Ce qui est très intéressant, dans la crise du coronavirus, c’est qu’on n’a encore aucune certitude sur l’origine même de ce virus, ni sur ses différentes formes, les populations auxquelles il s’attaque, ses degrés de nocivité… Mais nous traversons également une grande incertitude sur toutes les conséquences de l’épidémie dans tous les domaines, sociaux, économiques... 

Mais en quoi ces incertitudes forment-elles, selon vous, le lien entre ces toutes ces crises ?

E.M. : Parce que nous devons apprendre à les accepter et à vivre avec elles, alors que notre civilisation nous a inculqué le besoin de certitudes toujours plus nombreuses sur le futur, souvent illusoires, parfois frivoles, quand on nous a décrit avec précision ce qui va nous arriver en 2025 ! L’arrivée de ce virus doit nous rappeler que l’incertitude reste un élément inexpugnable de la condition humaine. Toutes les assurances sociales auxquelles vous pouvez souscrire ne seront jamais capables de vous garantir que vous ne tomberez pas malade ou que vous serez heureux en ménage ! Nous essayons de nous entourer d’un maximum de certitudes, mais vivre, c’est naviguer dans une mer d’incertitudes, à travers des îlots et des archipels de certitudes sur lesquels on se ravitaille… 

C’est votre propre règle de vie ?


E.M. : C’est plutôt le résultat de mon expérience. J’ai assisté à tant d’événements imprévus dans ma vie – de la résistance soviétique dans les années 1930 à la chute de l’URSS, pour ne parler que de deux faits historiques improbables avant leur venue – que cela fait partie de ma façon d’être. Je ne vis pas dans l’angoisse permanente, mais je m’attends à ce que surgissent des événements plus ou moins catastrophiques. Je ne dis pas que j’avais prévu l’épidémie actuelle, mais je dis par exemple depuis plusieurs années qu’avec la dégradation de notre biosphère, nous devons nous préparer à des catastrophes. Oui, cela fait partie de ma philosophie : « Attends-toi à l’inattendu.»
En outre, je me préoccupe du sort du monde après avoir compris, en lisant Heidegger en 1960, que nous vivons dans l’ère planétaire, puis en 2000 que la globalisation est un processus pouvant provoquer autant de nuisances que de bienfaits. J’observe aussi que le déchaînement incontrôlé du développement techno-économique, animé par une soif illimitée de profit et favorisé par une politique néolibérale généralisée, est devenu nocif et provoque des crises de toutes sortes… À partir de ce moment-là, je suis intellectuellement préparé à faire face à l’inattendu, à affronter les bouleversements.



Pour s’en tenir à la France, comment jugez-vous la gestion de l’épidémie par les pouvoirs publics ?

E.M. : Je regrette que certains besoins aient été niés, comme celui du port du masque, uniquement pour… masquer le fait qu’il n’y en avait pas ! On a dit aussi : les tests ne servent à rien, uniquement pour camoufler le fait qu’on n’en avait pas non plus. Il serait humain de reconnaître que des erreurs ont été commises et qu’on va les corriger. La responsabilité passe par la reconnaissance de ses erreurs. Cela dit, j’ai observé que, dès son premier discours de crise, le président Macron n’a pas parlé que des entreprises, il a parlé des salariés et des travailleurs. C’est un premier changement ! Espérons qu’il finisse par se libérer du monde financier : il a même évoqué la possibilité de changer le modèle de développement…


Allons-nous alors vers un changement économique ?

E.M. : Notre système fondé sur la compétitivité et la rentabilité a souvent de graves conséquences sur les conditions de travail. La pratique massive du télétravail qu’entraîne le confinement peut contribuer à changer le fonctionnement des entreprises encore trop hiérarchiques ou autoritaires. 

La crise actuelle peut accélérer aussi le retour à la production locale et l’abandon de toute cette industrie du jetable, en redonnant du même coup du travail aux artisans et au commerce de proximité. Dans cette période où les syndicats sont très affaiblis, ce sont toutes ces actions collectives qui peuvent peser pour améliorer les conditions de travail. 


Sommes-nous en train de vivre un changement politique, où les rapports entre l’individu et le collectif se transforment ?

E.M. : L’intérêt individuel dominait tout, et voilà que les solidarités se réveillent. Regardez le monde hospitalier : ce secteur était dans un état de dissensions et de mécontentements profonds, mais, devant l’afflux de malades, il fait preuve d’une solidarité extraordinaire. Même confinée, la population l’a bien compris en applaudissant, le soir, tous ces gens qui se dévouent et travaillent pour elle. C’est incontestablement un moment de progrès, en tout cas au niveau national.
Je ne dis pas que la sagesse, c’est de rester toute sa vie dans sa chambre, mais ne serait-ce que sur notre mode de consommation ou d’alimentation, ce confinement est peut-être le moment de se défaire de toute cette culture industrielle dont on connaît les vices.
Malheureusement, on ne peut pas parler d’un réveil de la solidarité humaine ou planétaire. Pourtant nous étions déjà, êtres humains de tous les pays, confrontés aux mêmes problèmes face à la dégradation de l’environnement ou au cynisme économique. Alors qu’aujourd'hui, du Nigeria à Nouvelle-Zélande, nous nous retrouvons tous confinés, nous devrions prendre conscience que nos destins sont liés, que nous le voulions ou non. Ce serait le moment de rafraîchir notre humanisme, car tant que nous ne verrons pas l’humanité comme une communauté de destin, nous ne pourrons pas pousser les gouvernements à agir dans un sens novateur.

Que peut nous apprendre le philosophe que vous êtes pour passer ces longues périodes de confinement?

E.M. : C’est vrai que pour beaucoup d’entre nous qui vivons une grande partie de notre vie hors de chez nous, ce brusque confinement peut représenter une gêne terrible. Je pense que ça peut être l’occasion de réfléchir, de se demander ce qui, dans notre vie, relève du frivole ou de l’inutile. Je ne dis pas que la sagesse, c’est de rester toute sa vie dans sa chambre, mais ne serait-ce que sur notre mode de consommation ou d’alimentation, c’est peut-être le moment de se défaire de toute cette culture industrielle dont on connaît les vices, le moment de s’en désintoxiquer. C’est aussi l’occasion de prendre durablement conscience de ces vérités humaines que nous connaissons tous, mais qui sont refoulées dans notre subconscient : que l’amour, l’amitié, la communion, la solidarité sont ceux qui font la qualité de la vie. 

sabato 8 febbraio 2020

Il ‘mercato’ è una cialtronata

(Interno dell'appartamento di Donald Trump a New York)


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Credo che la nostra società sia sufficientemente matura per capire che il ‘mercato’ è essenzialmente una cialtronata. Se no, non si capirebbe in che modo un personaggio come Donald Trump, evidentemente sottodotato intellettualmente, possa essersi arricchito al punto da scalare la vetta suprema della società nella quale la considerazione che si dà al denaro è massima. Occorre subito dire che, sull’onda dell’emulazione, anche da noi i personaggi di questo tipo non mancano e, in perfetta sintonia con le teorie d’oltreoceano, legittimano il loro privilegio sociale predicando la bontà del teorema secondo cui la libertà del mercato coincida esattamente con quella di tutte le persone. Per questa teoria, che un semianalfabeta possa diventare persona ricca e potente, è del tutto normale. E che possa, come sempre nel caso di Trump, metter su casa peggio dei Casamonica, non intacca minimamente la sua autorevolezza presso gli sfigati che in quella carnevalata riescono a riconoscere i valori di una vita di successo. Certamente, dopo aver avuto la possibilità di conoscere tanta volgarità nel gusto, diventa difficile anche solo pensare che in tanta libertà mercantile possa ritrovarsi un soggetto con un minimo di positività. Eppure, per ovvie ragioni al limite dell’ontologia, la propaganda che riesce ad affidare al mercato l'idea che tutto il bene della condizione umana gli appartenga, è sempre più frequentemente nella classe dirigente di questo paese, con i suoi sacerdoti benevoli e sorridenti nelle loro liturgie, durante la celebrazione della sacralità dei bilanci. L’economia, quest’ancella del mercato al limite della trascendenza, assume su di sé l’onere di giustificare al mondo intellettuale la possibilità per cui le persone possano arricchirsi senza ritegno, ovviamente sulle spalle di altri uomini che nel migliore dei casi aspirano a diventare essi stessi i primi. Si chiama concorrenza, competizione, ed è parte di una visione darwiniana del mondo che, in effetti, nel suo cinismo funziona esattamente come la guerra: vince chi se la cava meglio. Da qui il fatto che i cialtroni di questa virtù siano meglio dotati. Esiste, è vero, un’altra economia, che in parte funziona e tiene ancora in piedi quello che si chiama lo stato sociale. Ma è molto malata e fragile, perché assalita da parassiti di ogni genere che mettono a dura prova la sua resistenza. Probabile preda della libera economia di mercato (non liberale) in futuro avrà i giorni contati.



venerdì 7 febbraio 2020

La verità sulle foibe


È morto recentemente a Roma il giornalista Giampaolo Pansa, firma dei più importanti quotidiani italiani, scrittore, polemista e commentatore. Fece scalpore, qualche anno fa, un libro che si intitolava  'Il sangue dei vinti' che intendeva riscattare i fascisti vittime della resistenza partigiana. Un testo criticato dagli storici per la mancanza di nuovi documenti, oltre a quelli già conosciuti, e basato su testimonianze di parte, perlopiù distorte e mai comprovate. Questo libro, la cui tiratura ha rappresentato un indiscusso successo editoriale, ha però avuto la conseguenza, limitandosi solo a raccontare fatti basati su racconti di sola memoria, oltretutto isolati dalla complessità del loro contesto, di fornire un alibi di redenzione al sentimento neofascista, che ha trovato in un modo inaspettato, da parte di un uomo di fede socialista, il mezzo di porsi sullo stesso piano storico della resistenza, accusandola di essere anch'essa autrice di crudeltà e malvagità diffuse.
Mi è capitato in più occasioni, nelle quali le mie posizioni antifasciste erano supportate da fatti storici rilevanti per la loro atrocità, di venire contestato sulla base di notizie e memorie riferibili alla questione delle foibe di Istria e Dalmazia.
Credo che occorra quindi riprendere gli studi di chi ha dedicato la vita per cercare la verità di questi fatti. Propongo quindi di seguito l'intervista, sempre attuale, allo storico Alessandra Kersevan.




Alessandra Kersevan, ex insegnante ed oggi paziente ricercatrice di storia e cultura della sua regione, il Friuli, da anni lavora al recupero della memoria storica in merito agli avvenimenti del confine orientale.


A Trieste la storia non comincia il 1° maggio 1945


Sì, Sembra un'osservazione banale, eppure di fronte a tante cose che sono state scritte in questi anni sulle vicende del confine orientale occorre chiarire e ricordare che il fascismo in questa regione è stato più violento che in qualsiasi altra parte d'Italia: sloveni e croati, oltre cinquecentomila persone che abitavano le terre annesse dallo stato italiano dopo la prima guerra mondiale furono oggetto di persecuzioni razziali e ogni tipo di angherie: divieto di usare la loro lingua, chiusura delle scuole, delle associazioni ed enti economici sloveni e croati, arresto degli oppositori, esecuzioni di condanne a morte decise dal Tribunale Speciale. Con l'aggressione nazifascista alla Jugoslavia, nel 1941, la nostra regione divenne avamposto della guerra e le persecuzioni contro sloveni e croati, anche cittadini italiani, divennero ancora più gravi: interi paesi furono deportati nei campi di concentramento come Arbe/Rab, oggi in Croazia, ma allora annessa all'Italia dopo l'aggressione alla Jugoslavia, Gonars in provincia di Udine, Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, Chiesanuova di Padova, Monigo di Treviso, Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone, Colfiorito in Umbria, Cairo Montenotte in provincia di Savona e decine e decine di altri, praticamente in tutte le regioni d'Italia. Fra 7 e 11 mila persone, donne, uomini, bambini, intere famiglie, morirono in questi campi, di fame e malattie. A Trieste nel 1942 fu istituito per la repressione della resistenza partigiana l'Ispettorato Speciale di Polizia per la Venezia Giulia, che si macchiò di efferati delitti contro gli antifascisti in genere, ma soprattutto contro sloveni e croati.


Da chi è stato inaugurato l'uso delle foibe?

Ci sono testimonianze autorevoli (per esempio dell'ispettore di polizia De Giorgi, colui che nel dopoguerra fu incaricato dei recuperi dalle foibe) che furono proprio uomini dell'Ispettorato speciale, in particolare quelli della squadra politica, la cosiddetta banda Collotti, a gettare negli "anfratti del Carso" degli arrestati che morivano sotto tortura. Comunque andando anche più indietro nel tempo, già durante la prima guerra mondiale, che fu combattuta soprattutto in queste terre, le foibe venivano usate come luogo di sepoltura "veloce" dopo le sanguinose battaglie, e nell'immediato dopoguerra i fascisti pubblicavano testi di canzoncine in cui si minacciava di buttare nelle foibe chi si ostinava a non parlare "di Dante la favella".


Che funzione aveva la Banda Colotti?

La banda Collotti era la squadra politica dell'Ispettorato speciale guidata appunto dal commissario Gaetano Collotti. Con la sua squadra batteva il Carso triestino per reprimere la resistenza che già nel '42 era iniziata in queste zone. Si macchiarono di efferati delitti, torturando e uccidendo centinaia di persone. Come Resistenzastorica stiamo pubblicando con la casa editrice Kappa Vu la ricerca di Claudia Cernigoi sulla banda Collotti. Nel corso di alcuni anni di ricerche Cernigoi è riuscita a trovare una quantità consistente di documentazione. Eppure in questo dopoguerra nessuno, neppure gli istituti storici di Trieste e di Udine, avevano pubblicato nulla sull'argomento.


Definiamo le foibe. Chi ci è finito dentro? Donne? Bambini? Quanti in tutto? Perché c'è così grande attenzioni su queste esecuzioni, mentre in altre zone ce ne furono in numero assai maggiore?


Nelle foibe non sono finite donne e bambini, i profili di coloro che risultano infoibati sono quasi tutti di adulti compromessi con il fascismo, per quanto riguarda le foibe istriane del '43, e con l'occupatore tedesco per quanto riguarda il '45. I casi di alcune donne infoibate sono legati a fatti particolari, vendette personali, che non possono essere attribuiti al movimento di liberazione. Questo diventa evidente quando si vanno ad analizzare i documenti, cosa che purtroppo la gran parte degli "storici" in questi anni non ha fatto, accontentandosi di riprendere i temi e le argomentazioni della propaganda neofascista. Va detto inoltre che i numeri non sono assolutamente quelli della propaganda di questi anni: è ormai assodato che in Istria nel '43 le persone uccise nel corso della insurrezione successiva all'8 settembre sono fra le 250 e le 500, la gran parte uccise al momento della rioccupazione del territorio da parte dei nazifascisti; nel '45 le persone scomparse, sono meno di cinquecento a Trieste e meno di mille a Gorizia, alcuni fucilati ma la gran parte morti di malattia in campo di concentramento in Jugoslavia. Uso il termine "scomparsi", ma purtroppo è invalso l'uso di definire infoibati tutti i morti per mano partigiana. In realtà nel '45 le persone "infoibate" furono alcune decine, e per queste morti ci furono nei mesi successivi dei processi e delle condanne, da cui risultava che si era trattato in genere di vendette personali nei confronti di spie o ritenute tali. C'è poi l'episodio della foiba Plutone, da cui furono estratti 18 corpi, in cui gli "infoibatori" erano appartenenti alla Decima Mas e criminali comuni infiltrati fra i partigiani, e furono arrestati e processati dagli stessi jugoslavi. Insomma se si va ad analizzare la documentazione esistente si vede che si tratta di una casistica varia che non può corrispondere ad un progetto di "pulizia etnica" da parte degli jugoslavi come si è detto molto spesso in questi anni.
La grande attenzione a questi fatti è funzionale alla criminalizzazione della resistenza jugoslava che fu la più grande resistenza europea. Di riflesso si criminalizza tutta la resistenza, e si è aperto il varco per criminalizzare anche quella italiana, come sta dimostrando ora Pansa con i suoi libri.

Gli studiosi delle foibe. Chi sono?

Sono di svariati generi. Quelli che noi chiamiamo un po' ironicamente i "foibologi" sono tutti esponenti della destra più estrema, alcuni, come Luigi Papo hanno fatto addirittura parte della milizia fascista in Istria, di coloro cioè che collaborarono con i nazisti nella repressione della resistenza. Altri, più giovani, come Marco Pirina, sono stati esponenti di organizzazioni neofasciste negli anni della strategia della tensione (lui per esempio risulta coinvolto nel golpe Borghese). Poi c'è il filone degli storici che facevano riferimento al CLN triestino (organizzazione non collegata con il CLNAI) che fu il massimo organizzatore dell'"operazione foibe" a Trieste nel dopoguerra. Mentre può essere abbastanza facile capire le manipolazioni della "storiografia" fascista, è molto più difficile difendersi dalle manipolazioni della storiografia ciellenista, perché questi hanno un'aura di antifascismo che fa prendere per buone tutte le cose che scrivono. In realtà leggendo i loro libri ti accorgi che sono citazioni di citazioni da altri libri (spesso memorie di fascisti) non sottoposte a verifica. Il problema è che su tutta questa questione delle foibe ha pesato nel dopoguerra il clima della guerra fredda: voglio ricordare che un importantissimo documento di fonte alleata agli inizi del '46 diceva: sospendiamo, non avendo trovato nulla di interessante, le ricerche nel pozzo della miniera di Basovizza, ma perché gli Jugoslavi non possano dire che è stata tutta propaganda contro di loro, diremo che lo abbiamo fatto per mancanza di mezzi tecnici adeguati. Ha pesato e pesa inoltre molto la questione dei confini, e il sentimento delle "terre ingiustamente perdute", che anche se con toni un po' diversi, coinvolge anche gli storici che fanno riferimento politicamente al centro sinistra. Ci sono però anche tantissimi storici seri. Per "seri" intendo quelli che non si accontentano di quello che è già stato scritto, ma che cercano nuova documentazione, la analizzano, la confrontano con quanto è già stato pubblicato e inseriscono gli avvenimenti nel contesto in cui sono avvenuti. Questo è il metodo storiografico che tutti dovrebbero usare, ma, sembrerà incredibile, nella questione della foibe e dell'esodo anche storici accademici e "blasonati" si sono lasciati andare a metodi da propagandisti più che da storici, preferendo le citazioni di citazioni di citazioni, piuttosto che la fatica della ricerca.

La foiba di Basovizza. C'è una lapide che commemora le vittime, eppure la storia sembra molto diversa…

La documentazione esistente, una documentazione piuttosto corposa, dice che nella miniera di Basovizza non ci furono infoibamenti. Già nell'estate del '45, quindi pochissimo tempo dopo i pretesi infoibamenti, gli angloamericani procedettero per mesi a ricognizioni nel pozzo della miniera (infatti non si tratta di una foiba in senso geologico), in seguito alle denunce del CLN triestino che diceva che dovevano essere stati infoibati alcune centinaia di agenti della questura di Trieste. Poiché non fu trovato nulla di "interessante", nei primi mesi del '46 le ricerche furono sospese, come ho già spiegato prima. Tutto questo risulta da una gran quantità di documenti di fonte alleata, negli archivi di Washington e di Londra. Quindi nella "foiba" non ci sono i "500 metri cubi" di infoibati che sono scritti nella lapide, e neppure i duemila infoibati citati in libri. Dopo che Claudia Cernigoi  ha riportato questi documenti nel suo libro "Operazione foibe a Trieste" la cosa dovrebbe essere evidente a tutti che si occupano dell'argomento. Ma si fa finta di niente. Il comune di Trieste adesso ha ristrutturato il monumento sulla foiba e presto verrà il presidente del Senato Marini a inaugurarlo. La menzogna vive ormai di vita propria, e non si riesce a fermarla.


Le leggende sulle foibe.
Ho già spiegato che le biografie della gran parte degli uccisi sono di persone coinvolte a vario titolo nel regime fascista prima e nell'occupazione nazista poi. Come ben mette in luce Claudia Cernigoi nel suo libro, in una città come Trieste il collaborazionismo interessò tantissime categorie di persone, e molti di quelli che vengono definiti "civili" erano in realtà e collaborazionisti, delatori di professione, spioni di quartiere che denunciavano gli ebrei. Per esempio ai rastrellamenti sul Carso con la banda Collotti partecipavano anche persone che non erano ufficialmente appartenenti alla questura. Come gruppo di Resistenzastorica abbiamo condotto una ricerca sulla vicenda di Graziano Udovisi, conosciuto come "l'unico ad essere uscito vivo dalla foiba" e presentato come una vittima "solo perché italiano". Da questa ricerca è emerso, oltre alla assoluta falsità del suo racconto, che egli dal '43 al '45 era stato tenente della Milizia Difesa Territoriale, in un gruppo dal nome significativo di "Mazza di Ferro", specificamente preposto alla repressione della guerriglia, e che nel '46 fu condannato per crimini di guerra a 2 anni e 11 mesi di reclusione. Eppure nel 2005 Graziano Udovisi è diventato "uomo dell'anno", premiato con l'Oscar della Rai per una sua intervista a Minoli, che lo ha presentato come uno che è stato "infoibato" "solo perché italiano. Come ho già detto: storici, giornalisti e tutti coloro che scrivono di queste cose in questi anni di Giornate del Ricordo, dovrebbero sapere che intorno a queste vicende c'è tanta propaganda, e che quindi bisogna informarsi bene prima di scrivere.

L'atteggiamento della destra e della sinistra.

Non si vede una grande differenza. La destra fascista ha trovato in questo argomento la possibilità di ribaltare il discorso delle responsabilità nella seconda guerra mondiale, passando da carnefici a vittime, con la possibile riabilitazione dei repubblichini di Salò ecc. La sinistra ha trovato l'occasione per prendere le distanze dal proprio passato partigiano, con tutta una serie di distinguo e di "ammissioni" in cui le foibe erano funzionali in quanto venivano attribuite a partigiani, sì, ma "slavi" (e si sa che il razzismo antislavo è molto diffuso) e quindi la resistenza italiana poteva restarne fuori. La miopia di una simile posizione la si vede oggi, con un'operazione come quella di Giampaolo Pansa, che attacca direttamente la resistenza italiana.
C'è da dire, inoltre, che l'"operazione foibe" è funzionale alla politica estera italiana, tradizionalmente "espansionistica" verso la penisola balcanica. Anche in questo senso, centrodestra e centrosinistra non si distinguono. Noi di Resistenzastorica abbiamo una raccolta impressionante di dichiarazioni di esponenti del centro sinistra in senso neoirredentista, cioè tese alla rivendicazione delle "terre perdute", tema che oltre ad essere stato sempre tipico della destra, sembrerebbe oggi anche antistorico, nel momento dell'allargamento dell'UE. Eppure le dichiarazioni ci sono, anche di personaggi come Fassino.

Che cosa significa oggi commemorare i morti delle foibe?

Come ho spiegato, commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei conti o vendette personali, c'è il 2 di novembre.


Che cosa andrebbe fatto per restituire dignità alla memoria storica del paese?


Per quanto riguarda la dignità del paese, credo che l'unica cosa da fare sia smettere quella convinzione nazionale che gli italiani siano sempre stati "brava gente", che dovunque sono andati hanno portato la civiltà, anche quando bruciavano i villaggi della Croazia, o impiccavano i ribelli libici. Gli italiani debbono rendersi conto che la repubblica italiana non ha mai fatto veramente i conti con le responsabilità del fascismo. Dietro al discorso delle foibe c'è proprio l'interesse di continuare a nascondere queste responsabilità. Infatti la proposta italiana di incontro trilaterale fra i presidenti di Italia, Slovenia, Croazia, sui luoghi della memoria, inserendo la Risiera di San Sabba, il campo di concentramento di Gonars (o quello di Arbe) e la foiba di Basovizza, non è altro che un tentativo di gettare fumo negli occhi, di far dimenticare i crimini di guerra italiani in quei territori equiparando la foiba di Basovizza alla Risiera, unico campo di concentramento nazista con forno crematorio, in cui morirono oltre 3000 persone, soprattutto partigiani italiani, sloveni e croati, o ai campi di concentramento in cui morirono almeno settemila sloveni, croati, serbi, montenegrini. Il presidente della Repubblica dovrebbe andare di propria iniziativa ad Arbe in Croazia, o a Gonars a rendere omaggio alle vittime del fascismo, e a chiedere scusa agli ex jugoslavi. Questo dovrebbe essere la prima cosa da fare. Poi dovrebbe far pubblicare i risultati della commissione storica italo-slovena, che il governo italiano si era impegnato a pubblicare ma non ha mai fatto. Poi il governo di centro sinistra potrebbe obbligare la RAi a trasmettere in prima serata il documentario "Fascist legacy / L'eredità fascista", sui crimini di guerra italiani in Etiopia, Libia e Jugoslavia. Questo documentario della BBC fu acquistato nell'89 dalla RAI, ma mai trasmesso.



(red.)10 febbraio 2011


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