martedì 7 gennaio 2020

Neofascismo: la memoria tradita




Nel 1995 Umberto Eco stilò un elenco di 14 punti caratteristici dell’essenza fascista (da lui chiamato Ur-fascismo, perché comune a tutti i fascismi, non solo al regime dittatoriale che ha retto l’Italia dal 1925 al 1945).


Questi sono i punti:
1. Culto della tradizione (conseguenza: non ci può essere avanzamento del sapere). 2. Rifiuto del modernismo. 3. Culto dell’azione per l'azione (la cultura è sospetta). 4. Inaccettabilità della critica (il disaccordo è tradimento). 5. Paura della differenza. 6. Appello alle classi medie frustrate. 7. Ossessione del complotto (possibilmente internazionale). 8. I nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. 9. Il pacifismo è collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. 10. Disprezzo per i deboli. 11. Ciascuno è educato per diventare un eroe. 12. Machismo. 13. Populismo qualitativo. 14. Uso di un lessico povero e di una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico (uso della Neo-lingua).

Son passati 27 anni da queste parole, quando di populisti nostrani, a parte qualche sparata dei leghisti d’annata, non si vedeva traccia. Eppure sembrano scritte per oggi.
Nessuno della mia generazione, a parte qualche nostalgico, avrebbe mai pensato di trovarsi, ai confini della vecchiaia, in un momento di revanscismo neofascista, generico, volgare, violento e banale, ma diffuso come quello che ci tocca vivere in questi ultimi anni.
Sembra vero che il tempo abbia la capacità di rendere ogni fatto, anche il più abominevole, come se appartenesse alla normalità della vicenda umana, svuotandolo di ogni tensione emotiva e rendendolo alla memoria storica, rigorosa, rigida e tecnicamente neutra, in forma non dissimile da altri fatti analoghi succedutisi nel cammino dell'uomo. Questa condizione, se da un lato è utile alla comprensione rigorosa dei fatti storici e, in conseguenza di questo alla riconciliazione nazionale, in particolare in seguito a guerre civili che per loro natura obbligano i contendenti alla convivenza, dall’altro creano il terreno di coltura ideale per la rinascita e la ricrescita di quei disvalori che, come batteri mai del tutto annientati, possono ridare origine alla malattia.
Questi batteri, che sembrano appartenere per natura ad ogni uomo, sono principalmente, secondo me e in accordo con la tesi di Eco:
- l senso di appartenenza, che se eccitato dall’orgoglio diventa stupido nazionalismo;
- l’identità, che in assenza d’una personalità autonoma e soprattutto aperta al cambiamento, per conservare la propria immagine verso gli altri, non verso se stessi, pretende con disciplina che anche gli altri si conformino ad un protocollo morale e quindi sociale rigido, illiberale e restrittivo, nel quale il richiamo alla tradizione resta l’unica garanzia di sopravvivenza culturale;
- la paura del diverso, che se ben alimentata può facilmente diventare odio razziale.


Non esiste tradizione che non abbia confini territoriali. Spesso sono solo limiti geografici ma al loro interno, grazie soprattutto al linguaggio, è possibile riconoscere comportamenti, usi e costumi comuni di individui appartenenti a uno specifico territorio. Parliamo sempre d’un territorio fisico, pratico e funzionale, al quale però si affidano valori essenzialmente teoretici, come una storia ed una cultura comuni.
Ovviamente, nell’ambito dell’umanità intera si possono rintracciare più culture, ognuna con le sue caratteristiche peculiari. Questa condizione, pone ognuna di queste regioni ideali nella necessità di conservare la propria diversità rispetto alle altre, delle quali non è sempre facile accettare i comportamenti, spesso ponendosi in antagonismo con esse, rivendicando una legittima superiorità morale oltre che fisica.
Ma al loro interno, riconoscono la loro stessa diversità? Le società tradizionaliste, quelle che voglio preservare la loro diversità culturale e sociale, al loro interno, al contrario, sono le più severe nel chiedere l’omologazione dei propri appartenenti, obbligandoli a regole e costumi che negano qualsiasi scelta individuale non convenzionale. In pratica, loro negano la diversità all’interno del gruppo il quale, invece, rivendica la propria legittimità nella diversità rispetto agli altri gruppi. Vero è che, se all’interno del proprio gruppo ognuno fosse libero e padrone dei propri comportamenti, renderebbe irriconoscibile il gruppo in ragione della propria singolare appartenenza. Tutti i tradizionalismi vivono questa contraddizione: per essere diversamente individuati come gruppo devono disciplinare gli individui che al loro interno lo realizzano.
Viene appunto dall’abbandono dei concetti e dei valori che nel dopoguerra hanno sostituito i precedenti, responsabili del regime e della sua disfatta. Valori e concetti durati circa venticinque anni, una meteora nel contesto della storia dell’umanità, un mordi e fuggi degno di una rapina in banca, nella quale l’illusione di potenza e ricchezza improvvise sembrava scritta nei miti del passato, con tanto di liturgia e colonna sonora, al fascino dai quali pare che pochi italiani fossero estranei. Non ci fu nessuna grandezza, solo morti, arroganza e alla fine tanta miseria, che portarono un conto che forse non è mai stato del tutto saldato e che ora pretende da molti di essere rifatto, ricalcolato, ma non grazie ad gesto generoso del creditore, ma con la pretesa di rivedere i fatti e ridurne i costi.
Ed in questa disputa, diffusa e ormai quasi quotidiana, l’argomento che viene usato per contestare il prezzo è che altri, a cui il conto non è mai arrivato, avrebbero fatto peggio. Non c’è discussione, infatti, nella quale il riferimento al fascismo, a Mussolini (poiché senza Mussolini, in Italia, non c’è fascismo), non si venga sempre rimproverati di dimenticare le foibe o le purghe staliniane.
Per fare la diagnosi d’un potenziale neofascista (o neonazista), odio razziale e nazionalismo sono elementi di riscontro classici. La crisi identitaria, invece e purtroppo, è questione più vasta che coinvolge anche altre aree sociopolitiche. Ne ho parlato più volte in relazione al tradizionalismo in architettura e riparlarne ora richiederebbe uno spazio e un modo inadeguati, e sarebbe estraneo al senso di questo articolo. Dagli scritti che ho citato voglio però trarre questa considerazione che ritengo importante.
All’interno della caratteristica identitaria, la tendenza fascista, o perlomeno quella di estrema destra, è rintracciabile sempre nella seguente contraddizione.
Tornando al tema di questo scritto, da dove viene il tradimento della memoria?
Viene appunto dall’abbandono dei concetti e dei valori che nel dopoguerra hanno sostituito i precedenti, responsabili del regime e della sua disfatta. Valori e concetti durati circa venticinque anni, una meteora nel contesto della storia dell’umanità, un mordi e fuggi degno di una rapina in banca, nella quale l’illusione di potenza e ricchezza improvvise sembrava scritta nei miti del passato, con tanto di liturgia e colonna sonora, al fascino dei quali pare che pochi italiani fossero estranei. Non ci fu nessuna grandezza, solo morti, arroganza e alla fine tanta miseria, che portarono un conto che forse non è mai stato del tutto saldato e che ora pretende da molti di essere rifatto, ricalcolato, ma non grazie ad gesto generoso del creditore, ma con la pretesa di rivedere i fatti e ridurne i costi.
Ed in questa disputa, diffusa e ormai quasi quotidiana, l’argomento che viene usato per contestare il prezzo è che altri, a cui il conto non è mai arrivato, avrebbero fatto peggio. Non c’è discussione, infatti, con riferimento al fascismo, a Mussolini (poiché senza Mussolini, in Italia, non ci sarebbe stato il fascismo), nella quale non si venga sempre rimproverati di dimenticare le foibe o le purghe staliniane. Richiamare le conseguenze d’un regime dittatoriale e denunciarne la simmetria con altri può sembrare lecito nei limiti d’una discussione generica sui regimi totalitari, ma non può esserlo nello specifico della verità storica dei contesti in cui questi si sono sviluppati e realizzati. Se la Costituzione della repubblica italiana prevede di proibire la ricostituzione del partito fascista, questo è segno di una realtà storica condivisa, che ha originato il regime liberale e sociale attuali, nel quale tutte le componenti politiche antifasciste del ‘900 hanno avuto voce. Pretendere ora di assimilare il fascismo, legalizzandolo, ad altre ideologie che hanno determinato regimi autoritari in altre parti del mondo, non può appartenere alla nostra storia nel quale, quelle stesse ideologie, non si sono mai realizzate in forma di dittatura.
Fascismo e nazismo son durati si e no un trentennio, una fiammata nella storia moderna, ed hanno avuto un solo soggetto di riferimento ed un solo programma che coincideva con la sua ideologia. Il comunismo, ammesso che sia finito, è durato più d’un secolo ed ha avuto parecchi interpreti e parecchie anime, qualcuna con idee riformiste (come il partito comunista italiano) ed altre con mire autoritarie e sanguinarie (lo stalinismo). Il comunismo ha un ascendente universalistico e internazionale finalizzato al benessere dell’umanità; fascismo e nazismo hanno ascendente nazionalistico, finalizzato al benessere di un popolo. Pur figli entrambi della filosofia hegeliana, che pone gli individui a servizio dello stato, l’uno si realizza nell'idea di fratellanza tra le persone, l’altro nel conflitto tra i popoli.

Il professor Alessandro Barbero spiega molto chiaramente queste differenze nei video che trovate in allegato.