lunedì 16 settembre 2019

Destra o Sinistra?



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Gli ultimi avvenimenti politici nazionali hanno riproposto un tema che sembrava svanito nella nebbia del populismo dilagante contemporaneo. È bastato, infatti, uno scellerato colpo di testa d'uno dei protagonisti di questa grottesca stagione politica per mandare in frantumi tutto il castello teorico che considerava definitivamente chiusa la concezione capitale di ogni geografia politica, ovvero la collocazione degli schieramenti all'interno dell'emiciclo parlamentare: destra e sinistra.
Rivendicando un regime post-ideologico, indifferente alla collocazione tradizionale degli schieramenti politici, abbiamo assistito da parte del maggior partito italiano al più grande sbandamento a destra della storia repubblicana del nostro paese. Questo è avvenuto anche se il pericolo di viaggiare senza una bussola avrebbe dovuto suggerire che, senza sapere dove ci si trova, è difficile capire dove si sta andando e, quando lo si capisce, probabilmente ci si è già persi.
Dai tempi della rivoluzione francese, attraverso la sua legittima ambizione di far decidere le persone per natura e non per ceto, istanze e risposte sociali hanno trovato posto nella parte destra ed in quella sinistra del luogo destinato al dialogo e al confronto pubblico, ovviamente opponendosi, favorendo l'aggregazione di quei pensieri che più si assomigliano per sensibilità e costituzione.
Al di là delle differenze che i vari partiti politici rivendicano, sempre nella nobile ambizione di favorire il bene comune, la diversa natura di queste sensibilità può avere, come storicamente ha avuto, esiti incolmabilmente distanti ed ostili, che solo una razionale comprensione e un reciproco riconoscimento dei rispettivi valori ideali può dispensare da un inevitabile scontro fisico.
Il principio, infatti, che contare le teste sia meno doloroso che rompersele a vicenda, di einaudiana memoria, resta, malgrado gli aggiustamenti dei secoli, il fondamento concreto di ogni democrazia.
Destra e sinistra sono quindi luoghi più fisici che ideali.
Luoghi dove, per paradosso, in caso di scontro, si cercherebbe di trovare i possibili alleati. Luoghi nei quali, per quante siano le diversità, esiste comunque una ragione ultima per cui ci si può sentire schierati da una sponda anziché dall'altra del problema.
Lo scontro, dunque, appare come l'unico evento capace di definire in ultima istanza ogni personale geografia politica; la qual cosa consegna ad in criterio di relatività i concetti di destra e sinistra.
Ogniqualvolta, infatti, venga a determinarsi un conflitto, anche all'interno di uno stesso gruppo o partito o parte di esso, malgrado lo stesso appartenga dichiaratamente ad una formazione parlamentare definita, in essa si potrà riconoscere uno schieramento di destra ed uno di sinistra.
Sembra, in effetti, che dentro ogni persona agisca un preconcetto in grado di condizionare ogni decisione etica, indipendentemente dal contesto nel quale la stessa viene a determinarsi. Questa sorta di imprinting è parte del patrimonio intellettuale di tutte le persone. Quanto la sua formazione sia d'origine culturale, e quanto appartenga invece alla genetica, credo resterà un mistero, mentre conoscerne la natura potrebbe aiutare la comprensione e il dialogo tra pensieri anche molto diversi.

Norberto Bobbio, nel suo famoso saggio “Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” coglie principalmente la natura della differenza di schieramento politico tra destra e sinistra nel concetto di uguaglianza. Termine non banale che, riconoscendo le diversità tra gli individui, pur nella universalità dei loro diritti– e riconoscendo il valore della diversità e della complessità quali ricchezze collettive – l'autore considera come limite ideale a cui tendere e non come valore assoluto da perseguire sul cadavere delle libertà personali.
Queste sono le sue parole: «[…] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità». «[…] è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati […] a chiamare sinistra e destra».
Per Bobbio la sinistra è fondamentalmente egualitaria, che non vuol dire egualitarista: «Il concetto di uguaglianza è relativo, non assoluto». Egualitaria nel senso che tende a risolvere i conflitti riducendo le disuguaglianze, secondo un sentimento di giustizia innato nell'essere umano; egualitarista nel senso che pretende ideologicamente l'eguaglianza di tutti, su tutto e in tutti.
La destra, per converso, secondo questa logica è più inegualitaria, nel senso che pone il beneficio dato dalle differenze esistenti tra gli individui come irriducibile e superiore rispetto al senso di giustizia che li vorrebbe omologare. La destra, secondo questa lettura, tende a risolvere i conflitti trascurando le disuguaglianze o tollerandole a vantaggio di una maggiore libertà individuale.
È importante osservare come solo mediante il conflitto sia possibile individuare l'esatta collocazione del proprio reale sentimento politico.
Indipendentemente dal gruppo, famiglia o partito cui si appartiene, solo uno scontro concreto riesce a manifestare la natura profonda del nostro essere. Solo una situazione limite può verificare l'essenza dei nostri limiti.

Data questa condizione d'animo pre-cosciente, credo sia lecito domandarsi se le convinzioni politiche che ne discendono dipendano totalmente dalla costruzione culturale che le ha originate; oppure, per inverso, se non sia la condizione stessa ad aver generato l'impianto culturale che sostiene le convinzioni politiche.
La domanda quindi è: di destra o di sinistra, si nasce o si diventa?
La mia opinione è che le due ragioni convivano nello stesso individuo, ovviamente in misura diversa ed in proporzioni diverse. Gli umori e le condizioni sociali di ogni persona negli anni trovano il modo di destinarla geograficamente nello schieramento politico a lei più affine. Sicuramente, quel che non muta è l'imprinting che, al pari d'un dato biologico, ci fa stare da una parte o dall'altra della barricata quando ci troviamo in condizioni estreme. Esso dichiara se la nostra naturale tendenza è quella di sentirci parte di una comunità aperta alla diversità ed alla conoscenza, oppure d'essere partecipi d'un gruppo chiuso da difendere e tutelare rivendicandone il privilegio della peculiarità.
Riformisti e conservatori hanno origine da questa semplice dualità.
Da questa considerazione deriva che, mentre la costituzione egualitaria, di sinistra, tende ad essere inclusiva, l'altra, quella di destra, tende ad essere esclusiva.
Mentre la prima tende a costruire ponti, la seconda tende a costruire muri.
Mentre la prima tende al cosmopolitismo della cultura e alla ricerca di ciò che accomuna gli individui, la seconda tende alla particolarità e all'esaltazione delle differenze, elevando queste ultime da condizione di ostacolo alla convivenza a valore singolare da salvaguardare, al pari del clima, del paesaggio e delle specie arboree e animali.
Ma, secondo me, c'è un problema.
La biodiversità rappresenta certamente un valore necessario per la sopravvivenza naturale del pianeta; ma, se tale virtù viene calata banalmente nell'ambito della cultura e della politica, rischia di procurarne la fine.
Nel mondo naturale - che, infatti, è un mondo incosciente - tutto è svolto all'interno di una competizione totale ed estrema, senza nessuna mediazione intellettuale che possa pretendere un armistizio tra le specie in competizione.
Nel mondo cosciente, invece, che è quello degli uomini e delle loro idee, tutti devono infine confrontarsi con la consapevolezza generale di appartenere ad un destino comune.
Questo destino pretende che tutti gli esseri umani, nel rispetto delle loro differenze fisiche ed intellettuali, concorrano al mantenimento ed alla tutela della casa comune.
Esito, questo, che solo la pacifica convivenza tra gli abitanti può garantire e che rappresenta la finalità principale della politica nel suo senso più alto. Il confronto tra le parti, quindi, nella dimensione macro-politica, dovrebbe avvenire sulle soluzioni da adottare e non sulle finalità universalmente condivise, preservando in tal modo i principi generali che fondano la costruzione della nostra civiltà nella storia.
Quando si dimenticano tali principi, ovvero si dimentica l'universalità dei valori che costituiscono il confine etico invalicabile di ogni persona, e si pensa soltanto al benessere d'una parte dell'umanità - anche riconoscendo al proprio interno tali diritti inviolabili ma limitatamente al solo gruppo di appartenenza - si esce dall'ambito generale della politica, intesa come cosa pubblica (res publica), per entrare di fatto in una dimensione privatistica del bene collettivo. E questo avviene anche in contesti nazionali e perfino minori, quando si scambia il volere d'una maggioranza di gruppo per quello di tutta la sua popolazione. E dove c'è privato, fatalmente, c'è necessità d'un padrone, che in politica si chiama leadership.
L'idea di nazione, motore del sentimento di appartenenza ad un'entità statistica definita principalmente da confini geografici, nata storicamente a servizio di poche famiglie regnanti, fino alle rivoluzioni americana e francese ha ispirato e retto ogni teoria sulla gestione del potere e sulla legittimità dei suoi privilegi di casta. Teoria che ancora oggi sostiene gli ideali di coloro che propongono il primato delle sovranità nazionali, auspicando la chiusura verso tutte le contaminazioni esterne al proprio ambito sociale e culturale.
Tema, questo, molto attuale, che vede le odierne destre “sovraniste” ambire al ponte di comando. La nazione, infatti, per costoro, pare essere l'unico totem teleologico al quale riferire il benessere collettivo, ponendo l'esaltazione della nazione sopra e prima d'ogni altro valore comune.
L'avversione verso le aperture degli scambi ne è l'espressione più evidente.
L'avversione verso le imprese che hanno strutture sovranazionali, tanto forte da reintrodurre dazi e strumenti di protezione interna, ha come scopo la tutela del benessere locale, circoscritto ad ambiti sempre più ristretti, settari e faziosi, ben sapendo che i benefici sul piano globale che l'apertura dei mercati ha prodotto sono grandemente superiori, sul piano etico, al relativo sacrificio richiesto ai paesi più fortunati.
Se è pur vera l'obiezione, infatti, che sacche di povertà estrema si annidano e crescono anche all'interno degli stati più ricchi ed evoluti, la responsabilità di questi squilibri, come sostenuto da studi economici recenti, non va addebitata all'apertura dei mercati ma alla cattiva redistribuzione della ricchezza interna di ogni paese. Nessuno, infatti, può negare lo scarto spropositato tra la ricchezza dei paesi appartenenti al
G8 e gli ultimi del pianeta, che sono circa un terzo della popolazione mondiale, che devono sopravvivere, quando ci riescono, con meno di un dollaro al giorno a persona. Per questa ragione credo che occuparsi delle ragioni della povertà del proprio ambito riguardi soprattutto la distribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali, mentre pretendere, per ragioni demagogiche, un'analogia o un confronto con le parti di mondo ancora ridotte alla fame appaia perlomeno irriverente se non ingiurioso.
Altro tema sono le conseguenze di quello che viene definito dal mondo dell'economia col termine
globalizzazione, che vengono addebitate impropriamente ad un'improvvida apertura dei mercati. Anche in questo caso, il peccato originale sta nella mancanza di strumenti sovranazionali coraggiosi che possano competere con la dimensione planetaria delle aziende maggiori, alcune addirittura più ricche e potenti di molti stati sovrani, anche molto evoluti. Ovviamente, l'adozione di tali strumenti necessita dell'abbandono di vincoli protezionistici nazionali, in tal modo favorendo la permeabilità dei mercati in entrata ed in uscita e il bilanciamento dei prezzi al consumo; ma favorendo, soprattutto, la forza contrattuale per imporre limiti e regole che salvaguardino i singoli paesi da una indifferibile e altrimenti ineludibile sudditanza economica.

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Ho volutamente introdotto il tema della globalizzazione perché al suo interno è possibile riconoscere critiche provenienti da destra e altre da sinistra.
Concetti come la sacralità dei confini e la conseguente necessità di costruire muri a sua difesa sono riferibili alle destre in tutto il mondo e in tutti i tempi. Senonché i muri bloccano il transito in entrata, ma anche in uscita, dove molti imprenditori, anche quelli che sostengono la politica delle barriere, hanno necessità di transitare le loro merci. Se da un lato la chiusura può proteggere la produzione indigena dalla concorrenza esterna, non c'è ragione per cui le nostre merci, per le nostre stesse ragioni, debbano poter essere invece accettate da chi sta oltre i nostri confini.
Quindi, la creazione di un regime esclusivo, chiuso verso l'esterno, se rimane un concetto fortemente ispirato da un pensiero di destra, può contenere al suo interno molti soggetti che invece aspirano all'apertura, che è sostanzialmente un pensiero di sinistra.
Parimenti, nel mondo della sinistra, esistono larghe frange di resistenza all'apertura dei mercati, palesemente schierate contro l'internazionalizzazione della cultura e delle idee, tradendo in tal modo un atteggiamento tipico della destra.
Lo stesso vale per il concetto della conservazione e del recupero dei valori tradizionali contro il pensiero unico dell'internazionalismo, tipicamente riferibile alla destra ma, negli ultimi trent'anni, portato come bandiera dall'intellettualismo di sinistra.
Altro esempio riguarda la cultura alimentare. Molti anni fa nacque, proprio qui nella mia regione, un movimento indipendente che promuoveva un'alimentazione tradizionale in contrasto con le mode alimentari proposte dalla grande distribuzione. Un'iniziativa tutta interna a personaggi riferibili al mondo della sinistra, pur essendo lo spirito conservativo e fondamentalmente reazionario tipico delle idee di destra. La teoria autarchica che viene proposta è arrivata recentemente a teorizzare il consumo dei prodotti agricoli locali, nei quali venga annullata la distanza tra produttori e consumatori, stabilendo il primato del valore territoriale rispetto a quello della qualità intrinseca del bene. Una famosa azienda di promozione dei prodotti italiani, dovendo piazzare il meglio della produzione agricola nazionale all'estero, si scontrò ovviamente con la teoria suddetta, incontrando l'evidente paradosso di dover vendere a distanza prodotti che proprio della lontananza del consumatore chiedevano l'annullamento.
Il paradosso, in questo caso, non poteva non creare divario tra i due soggetti, pur conservandoli all'interno di una dichiarata partecipazione dell'idea di sinistra.

Ho riportato questi esempi molto pratici per mettere in luce quanta comunanza di sentimento e sensibilità ci possa essere pur appartenendo a schieramenti ufficialmente opposti. Questo fatto, inoltre, dimostra che, come sostengono posizioni ideali oggi largamente condivise, i problemi non sono né di destra né di sinistra, ma non per questo credo che siano spariti o debbano dissolversi pensieri e sensibilità di destra e di sinistra.
Esiste, infatti, un modo di affrontarli che è di destra ed un modo che è di sinistra, i quali a volte, come detto, convivono nello stesso gruppo se non nella stessa persona.
Dichiarare il superamento di posizioni così tanto radicate nelle persone è sicuramente un errore superficiale che tradisce la natura retorica e populistica di coloro che la propugnano.
Nel lungo cammino della civiltà (che personalmente faccio fatica a considerare esclusivamente occidentale) abbiamo assistito a una lenta ma progressiva liberazione ed autodeterminazione degli individui mediante continue conquiste civili, non sempre sociali, con cui si sono costruiti manifesti, proclami e dichiarazioni universalmente condivisibili. Dove queste hanno trovato applicazione la convivenza è migliorata e la vita di tutte le persone ha acquisito un valore preminente. Queste conquiste, è un dato storico, sono state ottenute con battaglie che intendevano aprire i confini, o del proprio paese, del proprio stato sociale, o semplicemente della propria esperienza umana; quindi battaglie fondamentalmente di sinistra, malgrado sia state combattute anche da persone che si consideravano convintamente di destra.
Diciamo infine che pretendere di abbandonare i concetti ideali di destra e sinistra considerandoli superati, conviene soprattutto al pensiero di chi appartiene fondamentalmente e profondamente alla destra conservatrice.