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Gli ultimi avvenimenti politici nazionali hanno riproposto un tema che sembrava svanito nella nebbia del populismo dilagante contemporaneo. È bastato, infatti, uno scellerato colpo di testa d'uno dei protagonisti di questa grottesca stagione politica per mandare in frantumi tutto il castello teorico che considerava definitivamente chiusa la concezione capitale di ogni geografia politica, ovvero la collocazione degli schieramenti all'interno dell'emiciclo parlamentare: destra e sinistra.
Rivendicando
un regime post-ideologico, indifferente alla collocazione
tradizionale degli schieramenti politici, abbiamo assistito da parte
del maggior partito italiano al più grande sbandamento a destra
della storia repubblicana del nostro paese. Questo è avvenuto anche
se il pericolo di viaggiare senza una bussola avrebbe dovuto
suggerire che, senza sapere dove ci si trova, è difficile capire
dove si sta andando e, quando lo si capisce, probabilmente ci si è
già persi.
Dai
tempi della rivoluzione francese, attraverso la sua legittima
ambizione di far decidere le persone per natura e non per ceto,
istanze e risposte sociali hanno trovato posto nella parte destra ed
in quella sinistra del luogo destinato al dialogo e al confronto
pubblico, ovviamente opponendosi, favorendo l'aggregazione di quei
pensieri che più si assomigliano per sensibilità e costituzione.
Al
di là delle differenze che i vari partiti politici rivendicano,
sempre nella nobile ambizione di favorire il bene comune, la diversa
natura di queste sensibilità può avere, come storicamente ha avuto,
esiti incolmabilmente distanti ed ostili, che solo una razionale
comprensione e un reciproco riconoscimento dei rispettivi valori
ideali può dispensare da un inevitabile scontro fisico.
Il
principio, infatti, che contare le teste sia meno doloroso che
rompersele a vicenda, di einaudiana memoria, resta, malgrado gli
aggiustamenti dei secoli, il fondamento concreto di ogni democrazia.
Destra
e sinistra sono quindi luoghi più fisici che ideali.
Luoghi
dove, per paradosso, in caso di scontro, si cercherebbe di trovare i
possibili alleati. Luoghi nei quali, per quante siano le diversità,
esiste comunque una ragione ultima per cui ci si può sentire
schierati da una sponda anziché dall'altra del problema.
Lo
scontro, dunque, appare come l'unico evento capace di definire in
ultima istanza ogni personale geografia politica; la qual cosa
consegna ad in criterio di relatività i concetti di destra e
sinistra.
Ogniqualvolta,
infatti, venga a determinarsi un conflitto, anche all'interno di uno
stesso gruppo o partito o parte di esso, malgrado lo stesso
appartenga dichiaratamente ad una formazione parlamentare definita,
in essa si potrà riconoscere uno schieramento di destra ed uno di
sinistra.
Sembra,
in effetti, che dentro ogni persona agisca un preconcetto in grado di
condizionare ogni decisione etica, indipendentemente dal contesto nel
quale la stessa viene a determinarsi. Questa sorta di imprinting
è
parte del patrimonio intellettuale di tutte le persone. Quanto la sua
formazione sia d'origine culturale, e quanto appartenga invece alla
genetica, credo resterà un mistero, mentre conoscerne la natura
potrebbe aiutare la comprensione e il dialogo tra pensieri anche
molto diversi.
Norberto
Bobbio,
nel suo famoso saggio “Destra
e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica”
coglie principalmente la natura della differenza di schieramento
politico tra destra e sinistra nel concetto di uguaglianza.
Termine non banale che, riconoscendo le diversità tra gli individui,
pur nella universalità dei loro diritti– e riconoscendo il valore
della diversità e della complessità quali ricchezze collettive –
l'autore considera come limite ideale a cui tendere e non come valore
assoluto da perseguire sul cadavere delle libertà personali.
Queste
sono le sue parole: «[…]
si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non
ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, apprezzano
maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò
che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo
dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più
importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità».
«[…] è proprio il
contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio
di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti
che siamo abituati […] a chiamare sinistra e destra».
Per
Bobbio la sinistra è fondamentalmente egualitaria,
che non vuol dire egualitarista:
«Il concetto di
uguaglianza è relativo, non assoluto».
Egualitaria
nel senso che tende a risolvere i conflitti riducendo le
disuguaglianze, secondo un sentimento di giustizia innato nell'essere
umano; egualitarista
nel senso che pretende ideologicamente l'eguaglianza di tutti, su
tutto e in tutti.
La
destra, per converso, secondo questa logica è più inegualitaria,
nel senso che pone il beneficio dato dalle differenze esistenti tra
gli individui come irriducibile e superiore rispetto al senso di
giustizia che li vorrebbe omologare. La destra, secondo questa
lettura, tende a risolvere i conflitti trascurando le disuguaglianze
o tollerandole a vantaggio di una maggiore libertà individuale.
È
importante osservare come solo mediante il conflitto sia possibile
individuare l'esatta collocazione del proprio reale sentimento
politico.
Indipendentemente
dal gruppo, famiglia o partito cui si appartiene, solo uno scontro
concreto riesce a manifestare la natura profonda del nostro essere.
Solo una situazione limite può verificare l'essenza dei nostri
limiti.
Data
questa condizione d'animo pre-cosciente, credo sia lecito domandarsi
se le convinzioni politiche che ne discendono dipendano totalmente
dalla costruzione culturale che le ha originate; oppure, per inverso,
se non sia la condizione stessa ad aver generato l'impianto culturale
che sostiene le convinzioni politiche.
La
domanda quindi è:
di destra o di sinistra, si nasce o si diventa?
La
mia opinione è che le due ragioni convivano nello stesso individuo,
ovviamente in misura diversa ed in proporzioni diverse. Gli umori e
le condizioni sociali di ogni persona negli anni trovano il modo di
destinarla geograficamente nello schieramento politico a lei più
affine. Sicuramente, quel che non muta è l'imprinting
che, al pari d'un dato biologico, ci fa stare da una parte o
dall'altra della barricata quando ci troviamo in condizioni estreme.
Esso dichiara se la nostra naturale tendenza è quella di sentirci
parte di una comunità aperta alla diversità ed alla conoscenza,
oppure d'essere partecipi d'un gruppo chiuso da difendere e tutelare
rivendicandone il privilegio della peculiarità.
Riformisti
e conservatori
hanno origine da questa semplice dualità.
Da
questa considerazione deriva che, mentre la costituzione egualitaria,
di sinistra, tende ad essere inclusiva,
l'altra, quella di destra, tende ad essere esclusiva.
Mentre
la prima tende a costruire ponti, la seconda tende a costruire muri.
Mentre
la prima tende al cosmopolitismo della cultura e alla ricerca di ciò
che accomuna gli individui, la seconda tende alla particolarità e
all'esaltazione delle differenze, elevando queste ultime da
condizione di ostacolo alla convivenza a valore singolare da
salvaguardare, al pari del clima, del paesaggio e delle specie
arboree e animali.
Ma,
secondo me, c'è un problema.
La
biodiversità rappresenta certamente un valore necessario per la
sopravvivenza naturale del pianeta; ma, se tale virtù viene calata
banalmente nell'ambito della cultura e della politica, rischia di
procurarne la fine.
Nel
mondo naturale - che, infatti, è un mondo incosciente - tutto è
svolto all'interno di una competizione totale ed estrema, senza
nessuna mediazione intellettuale che possa pretendere un armistizio
tra le specie in competizione.
Nel
mondo cosciente, invece, che è quello degli uomini e delle loro
idee, tutti devono infine confrontarsi con la consapevolezza generale
di appartenere ad un destino comune.
Questo
destino pretende che tutti gli esseri umani, nel rispetto delle loro
differenze fisiche ed intellettuali, concorrano al mantenimento ed
alla tutela della casa comune.
Esito,
questo, che solo la pacifica convivenza tra gli abitanti può
garantire e che rappresenta la finalità principale della politica
nel suo senso più alto. Il confronto tra le parti, quindi, nella
dimensione macro-politica,
dovrebbe avvenire sulle soluzioni da adottare e non sulle finalità
universalmente condivise, preservando in tal modo i principi generali
che fondano la costruzione della nostra civiltà nella storia.
Quando
si dimenticano tali principi, ovvero si dimentica l'universalità dei
valori che costituiscono il confine etico invalicabile di ogni
persona, e si pensa soltanto al benessere d'una parte dell'umanità -
anche riconoscendo al proprio interno tali diritti inviolabili ma
limitatamente al solo gruppo di appartenenza - si esce dall'ambito
generale della politica, intesa come cosa pubblica (res
publica), per
entrare di fatto in una dimensione privatistica del bene collettivo.
E questo avviene anche in contesti nazionali e perfino minori, quando
si scambia il volere d'una maggioranza di gruppo per quello di tutta
la sua popolazione. E dove c'è privato, fatalmente, c'è necessità
d'un padrone, che in politica si chiama leadership.
L'idea
di nazione, motore del sentimento di appartenenza ad un'entità
statistica definita principalmente da confini geografici, nata
storicamente a servizio di poche famiglie regnanti, fino alle
rivoluzioni americana e francese ha ispirato e retto ogni teoria
sulla gestione del potere e sulla legittimità dei suoi privilegi di
casta. Teoria che ancora oggi sostiene gli ideali di coloro che
propongono il primato delle sovranità nazionali, auspicando la
chiusura verso tutte le contaminazioni esterne al proprio ambito
sociale e culturale.
Tema,
questo, molto attuale, che vede le odierne destre “sovraniste”
ambire al ponte di comando. La nazione, infatti, per costoro, pare
essere l'unico totem
teleologico al quale riferire il benessere collettivo, ponendo
l'esaltazione della nazione sopra e prima d'ogni altro valore comune.
L'avversione
verso le aperture degli scambi ne è l'espressione più evidente.
L'avversione
verso le imprese che hanno strutture sovranazionali, tanto forte da
reintrodurre dazi e strumenti di protezione interna, ha come scopo la
tutela del benessere locale, circoscritto ad ambiti sempre più
ristretti, settari e faziosi, ben sapendo che i benefici sul piano
globale che l'apertura dei mercati ha prodotto sono grandemente
superiori, sul piano etico, al relativo sacrificio richiesto ai paesi
più fortunati.
Se è pur vera l'obiezione, infatti, che sacche di povertà estrema si annidano e crescono anche all'interno degli stati più ricchi ed evoluti, la responsabilità di questi squilibri, come sostenuto da studi economici recenti, non va addebitata all'apertura dei mercati ma alla cattiva redistribuzione della ricchezza interna di ogni paese. Nessuno, infatti, può negare lo scarto spropositato tra la ricchezza dei paesi appartenenti al G8 e gli ultimi del pianeta, che sono circa un terzo della popolazione mondiale, che devono sopravvivere, quando ci riescono, con meno di un dollaro al giorno a persona. Per questa ragione credo che occuparsi delle ragioni della povertà del proprio ambito riguardi soprattutto la distribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali, mentre pretendere, per ragioni demagogiche, un'analogia o un confronto con le parti di mondo ancora ridotte alla fame appaia perlomeno irriverente se non ingiurioso.
Altro tema sono le conseguenze di quello che viene definito dal mondo dell'economia col termine globalizzazione, che vengono addebitate impropriamente ad un'improvvida apertura dei mercati. Anche in questo caso, il peccato originale sta nella mancanza di strumenti sovranazionali coraggiosi che possano competere con la dimensione planetaria delle aziende maggiori, alcune addirittura più ricche e potenti di molti stati sovrani, anche molto evoluti. Ovviamente, l'adozione di tali strumenti necessita dell'abbandono di vincoli protezionistici nazionali, in tal modo favorendo la permeabilità dei mercati in entrata ed in uscita e il bilanciamento dei prezzi al consumo; ma favorendo, soprattutto, la forza contrattuale per imporre limiti e regole che salvaguardino i singoli paesi da una indifferibile e altrimenti ineludibile sudditanza economica.
Se è pur vera l'obiezione, infatti, che sacche di povertà estrema si annidano e crescono anche all'interno degli stati più ricchi ed evoluti, la responsabilità di questi squilibri, come sostenuto da studi economici recenti, non va addebitata all'apertura dei mercati ma alla cattiva redistribuzione della ricchezza interna di ogni paese. Nessuno, infatti, può negare lo scarto spropositato tra la ricchezza dei paesi appartenenti al G8 e gli ultimi del pianeta, che sono circa un terzo della popolazione mondiale, che devono sopravvivere, quando ci riescono, con meno di un dollaro al giorno a persona. Per questa ragione credo che occuparsi delle ragioni della povertà del proprio ambito riguardi soprattutto la distribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali, mentre pretendere, per ragioni demagogiche, un'analogia o un confronto con le parti di mondo ancora ridotte alla fame appaia perlomeno irriverente se non ingiurioso.
Altro tema sono le conseguenze di quello che viene definito dal mondo dell'economia col termine globalizzazione, che vengono addebitate impropriamente ad un'improvvida apertura dei mercati. Anche in questo caso, il peccato originale sta nella mancanza di strumenti sovranazionali coraggiosi che possano competere con la dimensione planetaria delle aziende maggiori, alcune addirittura più ricche e potenti di molti stati sovrani, anche molto evoluti. Ovviamente, l'adozione di tali strumenti necessita dell'abbandono di vincoli protezionistici nazionali, in tal modo favorendo la permeabilità dei mercati in entrata ed in uscita e il bilanciamento dei prezzi al consumo; ma favorendo, soprattutto, la forza contrattuale per imporre limiti e regole che salvaguardino i singoli paesi da una indifferibile e altrimenti ineludibile sudditanza economica.
2
Ho
volutamente introdotto il tema della globalizzazione perché al suo
interno è possibile riconoscere critiche provenienti da destra e
altre da sinistra.
Concetti come la sacralità dei confini e la conseguente necessità di costruire muri a sua difesa sono riferibili alle destre in tutto il mondo e in tutti i tempi. Senonché i muri bloccano il transito in entrata, ma anche in uscita, dove molti imprenditori, anche quelli che sostengono la politica delle barriere, hanno necessità di transitare le loro merci. Se da un lato la chiusura può proteggere la produzione indigena dalla concorrenza esterna, non c'è ragione per cui le nostre merci, per le nostre stesse ragioni, debbano poter essere invece accettate da chi sta oltre i nostri confini.
Concetti come la sacralità dei confini e la conseguente necessità di costruire muri a sua difesa sono riferibili alle destre in tutto il mondo e in tutti i tempi. Senonché i muri bloccano il transito in entrata, ma anche in uscita, dove molti imprenditori, anche quelli che sostengono la politica delle barriere, hanno necessità di transitare le loro merci. Se da un lato la chiusura può proteggere la produzione indigena dalla concorrenza esterna, non c'è ragione per cui le nostre merci, per le nostre stesse ragioni, debbano poter essere invece accettate da chi sta oltre i nostri confini.
Quindi,
la creazione di un regime esclusivo, chiuso verso l'esterno, se
rimane un concetto fortemente ispirato da un pensiero di destra, può
contenere al suo interno molti soggetti che invece aspirano
all'apertura, che è sostanzialmente un pensiero di
sinistra.
Parimenti, nel mondo della sinistra, esistono larghe frange di resistenza all'apertura dei mercati, palesemente schierate contro l'internazionalizzazione della cultura e delle idee, tradendo in tal modo un atteggiamento tipico della destra.
Lo stesso vale per il concetto della conservazione e del recupero dei valori tradizionali contro il pensiero unico dell'internazionalismo, tipicamente riferibile alla destra ma, negli ultimi trent'anni, portato come bandiera dall'intellettualismo di sinistra.
Altro esempio riguarda la cultura alimentare. Molti anni fa nacque, proprio qui nella mia regione, un movimento indipendente che promuoveva un'alimentazione tradizionale in contrasto con le mode alimentari proposte dalla grande distribuzione. Un'iniziativa tutta interna a personaggi riferibili al mondo della sinistra, pur essendo lo spirito conservativo e fondamentalmente reazionario tipico delle idee di destra. La teoria autarchica che viene proposta è arrivata recentemente a teorizzare il consumo dei prodotti agricoli locali, nei quali venga annullata la distanza tra produttori e consumatori, stabilendo il primato del valore territoriale rispetto a quello della qualità intrinseca del bene. Una famosa azienda di promozione dei prodotti italiani, dovendo piazzare il meglio della produzione agricola nazionale all'estero, si scontrò ovviamente con la teoria suddetta, incontrando l'evidente paradosso di dover vendere a distanza prodotti che proprio della lontananza del consumatore chiedevano l'annullamento.
Parimenti, nel mondo della sinistra, esistono larghe frange di resistenza all'apertura dei mercati, palesemente schierate contro l'internazionalizzazione della cultura e delle idee, tradendo in tal modo un atteggiamento tipico della destra.
Lo stesso vale per il concetto della conservazione e del recupero dei valori tradizionali contro il pensiero unico dell'internazionalismo, tipicamente riferibile alla destra ma, negli ultimi trent'anni, portato come bandiera dall'intellettualismo di sinistra.
Altro esempio riguarda la cultura alimentare. Molti anni fa nacque, proprio qui nella mia regione, un movimento indipendente che promuoveva un'alimentazione tradizionale in contrasto con le mode alimentari proposte dalla grande distribuzione. Un'iniziativa tutta interna a personaggi riferibili al mondo della sinistra, pur essendo lo spirito conservativo e fondamentalmente reazionario tipico delle idee di destra. La teoria autarchica che viene proposta è arrivata recentemente a teorizzare il consumo dei prodotti agricoli locali, nei quali venga annullata la distanza tra produttori e consumatori, stabilendo il primato del valore territoriale rispetto a quello della qualità intrinseca del bene. Una famosa azienda di promozione dei prodotti italiani, dovendo piazzare il meglio della produzione agricola nazionale all'estero, si scontrò ovviamente con la teoria suddetta, incontrando l'evidente paradosso di dover vendere a distanza prodotti che proprio della lontananza del consumatore chiedevano l'annullamento.
Il
paradosso, in questo caso, non poteva non creare divario tra i due
soggetti, pur conservandoli all'interno di una dichiarata
partecipazione dell'idea di sinistra.
Ho
riportato questi esempi molto pratici per mettere in luce quanta
comunanza di sentimento e sensibilità ci possa essere pur
appartenendo a schieramenti ufficialmente opposti. Questo fatto,
inoltre, dimostra che, come sostengono posizioni ideali oggi
largamente condivise, i problemi non sono né di destra né di
sinistra, ma non per questo credo che siano spariti o debbano
dissolversi pensieri e sensibilità di destra e di sinistra.
Esiste,
infatti, un modo di affrontarli che è di destra ed un modo che è di
sinistra, i quali a volte, come detto, convivono nello stesso gruppo
se non nella stessa persona.
Dichiarare il superamento di posizioni così tanto radicate nelle persone è sicuramente un errore superficiale che tradisce la natura retorica e populistica di coloro che la propugnano.
Nel lungo cammino della civiltà (che personalmente faccio fatica a considerare esclusivamente occidentale) abbiamo assistito a una lenta ma progressiva liberazione ed autodeterminazione degli individui mediante continue conquiste civili, non sempre sociali, con cui si sono costruiti manifesti, proclami e dichiarazioni universalmente condivisibili. Dove queste hanno trovato applicazione la convivenza è migliorata e la vita di tutte le persone ha acquisito un valore preminente. Queste conquiste, è un dato storico, sono state ottenute con battaglie che intendevano aprire i confini, o del proprio paese, del proprio stato sociale, o semplicemente della propria esperienza umana; quindi battaglie fondamentalmente di sinistra, malgrado sia state combattute anche da persone che si consideravano convintamente di destra.
Dichiarare il superamento di posizioni così tanto radicate nelle persone è sicuramente un errore superficiale che tradisce la natura retorica e populistica di coloro che la propugnano.
Nel lungo cammino della civiltà (che personalmente faccio fatica a considerare esclusivamente occidentale) abbiamo assistito a una lenta ma progressiva liberazione ed autodeterminazione degli individui mediante continue conquiste civili, non sempre sociali, con cui si sono costruiti manifesti, proclami e dichiarazioni universalmente condivisibili. Dove queste hanno trovato applicazione la convivenza è migliorata e la vita di tutte le persone ha acquisito un valore preminente. Queste conquiste, è un dato storico, sono state ottenute con battaglie che intendevano aprire i confini, o del proprio paese, del proprio stato sociale, o semplicemente della propria esperienza umana; quindi battaglie fondamentalmente di sinistra, malgrado sia state combattute anche da persone che si consideravano convintamente di destra.
Diciamo
infine che pretendere di abbandonare i concetti ideali di destra e
sinistra considerandoli superati, conviene soprattutto al pensiero di
chi appartiene fondamentalmente e profondamente alla destra
conservatrice.
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