martedì 27 ottobre 2020

Lettera aperta ai sindaci

Premessa

(Langa - fotografia di Laura Malfatto)

In quest’anno surreale, nel quale sembra essere convenuta ogni sofferenza umana, sto sperimentando anche una severa vicenda esistenziale, capace di rimettere ordine nel sistema dei valori personali. Valori spesso disturbati e sedotti dall’euforia con cui si affronta e ci si difende dalla vita quando si crede, in fondo, di essere esonerati dal destino dei comuni mortali. 
Ed è questa una condizione umanamente comprensibile perché, avendo sfiorato di persona ‘l’inferno dell’assenza’ - lo posso dire non avendo, nel mio caso, nemmeno avuto la compagnia del buon Dio - l’idea della morte non mi è risultata razionalmente e completamente concepibile; pur essendo l’unica certezza della vita. 
Una condizione, quella di essere pretestuosamente immortale, che non dà motivo di distinguere tra vizi e virtù, tra valori e disvalori che, malgrado tutto, sono frequenti e che, per tale ragione, si riescono a tollerare quando gli stessi si ritrovano negli altri. Perché, infine, pur sbarcando nel più squallido dei compromessi, essendo pretestuosamente eterno, ognuno avrà sicuramente il modo di rivedere le cose e restituirle secondo i propri ideali, avendo il tempo necessario per farlo. Ma per me non è più così.
Parlo pubblicamente in questo modo, così intimamente esplicito, di me e della mia condizione, perché non sono più disposto a svendere questi ideali per nessuna ragione, nemmeno per quelle che sembrano ispirate dalla buona fede e dal buon senso. Questa, anzi, è l’unica ragione che mi ha fatto riflettere e ragionare su questioni che la mia dignità di persona non può più accettare, che riguardano tutte quelle relazioni che, per il lavoro che faccio, riguardano i piani più alti dei sentimenti, della personalità e delle sensibilità delle persone.

L’architettura e il paesaggio

(Alvar Aalto  - Villa Mairea - Noormarkku - 1937)

Il mio lavoro si occupa di architettura, scritta e disegnata, quindi di cultura, nel senso del fare e non in quello del possedere, perché trasforma la realtà e la ricrea ‘fabbricando’ il suo aspetto sulle necessità delle persone e della loro realtà contingente. Nel nostro paese, questo compito, tra architetti, ingegneri, geometri e altre categorie, ingaggia professionalmente circa mezzo milione di individui, ma non credo che la stragrande maggioranza di questi abbia coscienza della sua  dote culturale più profonda ed importante.
Cosciente, invece,  lo è sicuramente chi si è occupato e si occupa di dare un minimo di disciplina a questo mondo variegato di progettisti, più pronti a seguire ispirazioni legittimamente mercantili che umanistiche, cresciuto proporzionalmente e complice dello sviluppo economico del paese. 
Coscienza istituzionale che, dal lato della conservazione, provvede a tutelare il passato ed i documenti della sua storia, sempre più spesso in modo autoritario. Da quello della produzione, cerca di dare indirizzi capaci di guidare verso un minimo di qualità architettonica anche quei professionisti che, magari dotati di spiccate capacità tecniche, sembrano essere totalmente assenti di qualità creative. L’urbanistica, che di questo si occupa, è il sistema normativo che governa questo mondo particolarmente complicato. 
Un mondo che, anche con molte falle, ha funzionato per molti anni, ma ora sembra stanco sul piano teorico e quindi pratico, perché rigido, indolente, normativamente obeso, appagato d’essere principalmente strumento di diritto piuttosto che di architettura, ma sempre più complice di una visione banale, reazionaria, passatista e consolatoria del costruire, da anni rivolta all’esaltazione del passato come se fosse l’unico futuro possibile. L’università, da cui dipende la competenza regionale di ogni impianto urbanistico, anch’essa stravolta nella qualità della sua missione didattica da un numero esagerato di corsi e docenze non sempre all’altezza del compito, non è riuscita a conservare e rinvigorire, se non in casi rari, la carica ideale della ricerca e lo spirito innovativo che la società aveva affidato alle istituzioni incaricate di conservare e promuovere la conoscenza collettiva.
Prestigiose istituzioni si trovano, invece, a confronto con un fallimento dell’architettura diffuso, che paradossalmente è maggiore nel paese in cui lavora quasi un terzo degli architetti europei (due volte e mezzo la media europea) e con il numero più elevato di leggi e regolamenti edilizi dell’intero continente.
Fallimento che negli ultimi decenni ha nascosto il limite dei suoi progetti dietro la maschera della nobile tradizione costruttiva nazionale, della suggestione del paesaggio e della sua conservazione, della riesumazione di relitti concettuali come quello di ‘bellezza’, oppure quello di ‘italianità’, che è un concetto ideologicamente identitario, che si è rivelato inutile, dannoso e pericoloso, capace di rimettere ferocemente  in gioco il peggiore localismo e razzismo non solo urbanistico.
Questa visione miope dell’architettura, che da motore di vita è diventato effimero accessorio di arredo, luogo non più da vivere ma solo da contemplare, ha costretto ogni nuova scelta urbanistica alla revisione storica, alla pedestre adesione ad un linguaggio dato e reso immodificabile dalla sua pretestuosa e presuntuosa verità. Addirittura, la supposta modernità che molti illusi vantano nel vestire con segni attuali (minimali o razionalizzati) le forme elementari della tradizione, sembra recuperare sul fronte contemporaneo un'appartenenza teorica professionalmente allineata con i tempi. Ma si tratta solo di fuffa, di uno stile, un artificio vecchio come la storia, perché l’architettura riguarda essenzialmente la manipolazione dello spazio, fin dalle sue origini, e non la sua pelle esteriore. Essere moderno in architettura, per esempio, vuol dire mettere le finestre dove e come servono per essere liberi di guardare fuori, non per come le può vedere un turista annoiato o un intellettuale della domenica che gradirebbe, invece, prospetti ordinati e pittorescamente conseguenti. 

Cosa vale quindi?

(Pablo Picasso - Les demoiselles d’Avignon)

(Ripreso da un recente scritto di prossima pubblicazione)

Vale più la tutela del paesaggio o la libertà d’espressione delle persone che lo vivono?
Vale più il paesaggio naturale e storico del passato o quello umano, presente e contingente?
È più importante la serenità contemplativa degli intellettuali da passeggio o la necessità di stare al mondo padroni della propria vita e del proprio destino? L’arte contemporanea ha risposto alla grande a queste domande e lo ha fatto principalmente in tre modi.
Il primo sbarazzandosi dei concetti di armonia e bellezza, portando sul palcoscenico il “dolore del mondo” e le sue contraddizioni e ingiustizie, creando nuovi paradigmi estetici.
Il secondo riprendendosi il ruolo della libera seduzione, senza regole e protocolli, che non rispetta i contesti sociali e non tollera gerarchie di classe. L’arte, infatti, consente allo stalliere di fare sesso con Lady Chatterley e alle signorine di Avignon di coglionare la bellezza femminile.
Il terzo trasformando le bestemmie in preghiere, le parolacce in poesie, convertendo, come sosteneva Baudrillard, “la crisi in valore”. Le risposte, quindi, diventano semplici.
In architettura non ci può essere paesaggio che non contempli anche le persone nella loro vita e condizione presente, non solo in quella passata. In architettura il passato è letto con gli occhi dell’adesso e non può essere fine a se stesso, isolato dal contesto presente. Soprattutto non può porre condizioni al divenire.
L’architettura è soprattutto un modo di vivere e di stare al mondo secondo la propria cultura, conoscenza e ambizione. Per di più è un’arte pubblica, perché si vede anche senza entrare in un museo o leggere un libro. Per questo rappresenta il modo principale nel quale si realizza e viene espressa la misura delle libertà personali, che sono il fondamento di uno stato democratico e liberale, il quale può esistere solo riconoscendo a tutti questo diritto. In architettura nessuno è titolare del bene comune in forma autoritaria e nessuno può usare questo argomento per limitare la libertà degli altri. In architettura la libertà vale più dell’armonia, del contesto e di altre stravaganze retoriche utili solo al controllo delle nostre libertà personali.

Il caso di Serralunga d’Alba


(Ripreso da un recente scritto di prossima pubblicazione)

Tutto questo ragionamento nasce da una recente esperienza amministrativa, che per la sua superficialità ha scosso profondamente la mia dignità professionale, quella più elementare, che riguarda una ricerca lunga quasi cinquant’anni, non priva di riconoscimenti e premi, messa alla prova dalla superficialità e incompetenza di un conciliabolo di colleghi incapaci nemmeno di leggere la qualità di un progetto (e di capire che dietro ad un progetto di qualità, anche se non condiviso, c’è sempre qualità e proposta di una visione seriamente alternativa).
Non si tratta, tra  l’altro, di un grande progetto, ma di una piccola cantina in Langa. Un piccolo grande progetto per due carissimi amici, lei medico e lui avvocato a Milano, nella casa natale di lei a Serralunga d'Alba. Una piccola cantina dove la mitica vigna di Barolo ereditata dal nonno può nuovamente diventare vino dei re, grazie alla passione di Diego, mio nipote, amico di scuola della coppia.
Non è un progetto banale, quindi, ma sentito e profondamente amato. Un progetto studiato, approfondito, condiviso e desiderato, sicuramente capace di riscattare un luogo anche recentemente offeso da interventi scenograficamente scadenti, falsi ed irridenti, contrari a qualsiasi innovazione, negati a qualsiasi apertura verso un luogo di una suggestione magica, che l'intelligenza vorrebbe trasparente e non rinchiusa in un presepe ridicolmente miope ed opaco. Un progetto che non deride il passato e non ne fa la sciocca caricatura, la quale ne dovrebbe ingenuamente rappresentare la farsa. Semplicemente, delle dimore del passato agricolo, la cui miseria è stata ben descritta nella migliore letteratura italiana, ne eredita l'intelligenza delle soluzioni e delle cose materiali che le nuove tecnologie ci offrono, come sempre è avvenuto e continuerà a succedere. 
La cosa interessante è che il giudizio generico e dilettantesco della sciocca e totalmente incompetente commissione ambientale locale (e quando dico locale parlo di una commissione messa in piedi da due comuni che insieme non raggiungono i tremila abitanti) non avendo conoscenza e coscienza nemmeno della qualità del progetto, ha praticamente invitato l'amministrazione a negarne l'autorizzazione, mortificando il legittimo diritto di realizzare un sentimento molto semplice ma fondamentale: migliorare il posto che abiti lasciandolo migliore di come l'hai trovato. Ma pare che questo merito non valga le ragioni di una scelta urbanistica ormai diventata oggetto di marketing d'una scadente architettura da passeggio. Un concetto mercantile per un'economia effimera e illusoria che un piccolo virus ha messo in ginocchio nel giro di pochi mesi, mettendo in luce quanto sia sbagliato e socialmente dannoso investire il proprio futuro sul passato e la sua immagine. Per  questo triste aspetto chiedo a tutte le amministrazioni una revisione radicale della visione urbanistica futura. E chiedo che questa nuova visione tenga conto anche delle invidie professionali di colleghi in conflitto d'interessi, che perdono il loro tempo a frequentare i vari sinodi della politica di paese, dimenticando che il fine della loro missione sarebbe quello di tutelare e promuovere il miglioramento del  paesaggio.

Gli ordini che istituzionalmente governano le professioni intellettuali (per fortuna non tutte) dovrebbero prendere provvedimenti contro il diffuso mercenarismo culturale che vede ingaggiati alcuni iscritti per dare giudizi di merito sul lavoro dei colleghi, azione del tutto condannata dal codice deontologico che considera (ipocritamente) tutti gli iscritti pariteticamente sia per competenza che per valore, proibendo loro addirittura la pubblicità in forma esplicita. L'azione dei commissari, sempre ingaggiati dalla politica che usa queste forme per deresponsabilizzare i suoi dinieghi, dietro alla irresponsabilità collettiva (la responsabilità penale è solo personale) capace di un giudizio estremamente efficace tanto da intervenire nelle scelte fondamentali di progetto, offre lo spazio per azioni di concorrenza sleale di fatto immuni da responsabilità civili e penali.
L'esito del ricorso contro questi baracconi burocratici, oltre una inutile perdita di tempo, è il basso livello della qualità architettonica, costretta a tristi mediazioni imposte per riportare il costruito dentro a schemi tipologici e linguistici nei quali mediocrità e pregiudizio diventano argomenti portanti. La maggioranza dei progettisti, conoscendo i limiti e il prezzo culturale da pagare per il successo del proprio lavoro, se non hanno una spiccata personalità tendono a produrre proposte già mortificate sul piano architettonico, capaci per questo di quietare le eventuali invidie e speculazioni concorrenti.
Sarebbe bene pertanto che, chi intende partecipare a commissioni nelle quali sono richiesti giudizi di merito sul lavoro dei colleghi, si autosospenda dall’ordine.


Dopo il Covid-19

(Pasqua 2020 - Piazza S. Pietro vuota)

Cosa ci lascia la pandemia recente sul piano generale e su quello specifico della progettazione architettonica? Ci lascia il totale fallimento del localismo e dei valori ad esso legati, come il concetto di identità (che infine significa riconoscimento all’interno di un gruppo geografico), la cui diversità culturale portata in primo piano e sopra qualsiasi altro valore sovranazionale è crollata sotto l’unico principio riconosciuto globalmente, che è quello della vita e dell’integrità civile di tutte le società, in cui solo la solidarietà e lo scambio delle conoscenze può essere salvezza per tutti. Decenni di un pensiero stanco, svuotato di ogni verità, ha condannato l’idea stessa di verità a opinione, governata da nostalgie reinterpretate sul proprio vissuto, come se il presente ne fosse solo la legittima e finale conseguenza. Ma questa inattesa crisi mondiale ha dimostrato esattamente il contrario. Se arriverà la salvezza, tramite un vaccino, nessuno si chiederà e valuterà la stessa sulle origini culturali, ma saprà che sarà il prodotto di uno scambio di conoscenze e ricerche che appartengono all’umanità intera, senza etichette e colori della pelle. La verità resiste nei momenti importanti e, malgrado le manipolazioni che vorrebbero stravolgerla o sopprimerla, sa sempre riporre infine le assurdità dell’umanità nel ripostiglio delle follie della storia. 
La verità, che nei momenti della storia recente è stata corrotta e falsificata, seppure derisa e delegittimata dalla sua mansione di guida delle migliori speranze e dei migliori progetti del nostro futuro, ha ritrovato alternativa e vita nei momenti in cui il futuro ha mostrato la sua prova più grave, spogliandosi degli orpelli esistenziali per recuperare la sua vitalità più profonda. Diceva Baudrillard: “...è facile uccidere la verità ma è impossibile farne sparire il cadavere”. 

Finale

(Habitat 67 - Moshe Safdie - Montreal - 1967)

Alla natura, infine, cinicamente non importa nulla della bellezza.
Se qualche paesaggio ci appare particolarmente seducente e rapisce il nostro sentimento, questo succede perché fondamentalmente ne siamo funzione e riconosciamo in lui gli stessi meccanismi interpretativi che compongono il nostro giudizio estetico.
Questo tipo di giudizio, di cui l’arte è interprete da sempre, fin dai dipinti rupestri, ha viaggiato nei millenni arrivando alla condizione attuale, nella quale essa non si riconosce più nella bellezza del creato ma nel suo valore antagonista in termini di espressione estetica ed artistica.
Per questa ragione, essendo parte di questa stessa sensibilità, anche l’architettura si pone in contrapposizione con la dote originale dell’arte, tanto che discriminiamo radicalmente tra un giardino e un edificio che gli vuole assomigliare. Per la condivisione ideale delle stesse ragioni artistiche, se alla natura non importa della bellezza, all’architettura, in fondo, nemmeno.
Cosa vuol dire, quindi, quando parliamo di ‘bellezza’ dell’architettura?
Nulla, se riferiamo il concetto agli stessi argomenti che ci fanno amare il creato o l’armonia con lo stesso. Molto, invece, se lo riferiamo alle ricerche e alle prospettive dell’arte più evoluta, l’unica che ci serve per l’indispensabile progresso dell'umanità. Arte, in particolare, che per sua vocazione è costretta a inseguire il mondo per ‘formare il gusto’, e farlo senza la fiacca di pensieri, come la bellezza canonica, l’equilibrio e la misura, che noi erroneamente pretendiamo riferire all’armonia del cosmo, che le farebbero scontrare con la loro paradossale antinomia. 
L’architettura non insegue la ‘bellezza’ ma, come l’arte, cerca di costruirla, pur avendo qualità diverse. Qualità che però non sono solo contemplative ma che coinvolgono anche le sue funzioni, indirizzando il giudizio estetico verso considerazioni più articolate che richiedono conoscenze più ragionate.
Questo testo, in fondo, vuole invitare le varie amministrazioni, a tutti i livelli competenti, a considerare i veri valori che la nostra storia dell’arte ha consegnato al nostro tempo, senza rincorrere strategie che, con il suo vero fine, non hanno nulla a che fare. Strategie che non rincorrono la realizzazione di un ideale universale ma solo particolare e mercantile, nel quale il beneficio di pochi intende imporre la propria volontà sul principio di tutti. Il principio rimane quello della ‘bellezza’ intesa come espressione artistica al livello più alto. Non è quello di un concetto che contempli armonia o rispetto o espressioni di sola osservazione.  Esiste una sostanza nell’arte contemporanea che si è manifestata con la liberazione dal suo vincolo solo estetico, postando le cose peggiori del mondo nella cornice di una tela, trasformando il peggio nel meglio delle società disposte a pagare il prezzo della loro legittimazione. Il risultato è l’estetica nuova che, in architettura, lo ripeto, permette a tutti di porsi, muoversi e giacere in casa guardando dove si vuole.