lunedì 9 dicembre 2019

Siamo alla frutta



Scrive Federico Giannini su Finestre sull’Arte a proposito di Comedian, la banana attaccata a un muro con nastro adesivo che Maurizio Cattelan ha presentato ad Art Basel Miami Beach:
Comedian è qualcosa di più: intanto, è un’opera che trasmette dei contenuti, anche se non ci si vuol credere e anche se si vuol far finta che non dica alcunché solo perché, in fin dei conti, stiamo parlando d’una banana appesa a un muro. Sarebbe interessante scoprire chi sia stato il primo ad affermare quell’immane bestialità secondo cui l’arte non dovrebbe aver bisogno di spiegazioni: chi può dire di entrare agli Uffizi e di capire opere come il Tondo Doni di Michelangelo, la Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto o la Venere di Urbino di Tiziano senza aver necessità di qualcuno che le illustri? Rievocando D’Annunzio, che cos’è la critica d’arte se non l’arte di godere l’arte? E Cattelan ci ha offerto nient’altro che un’opera di cui tutti possiamo letteralmente godere. Eventualmente anche senza vederla dal vivo.
E ad ogni modo, Comedian è opera che, comunque la si voglia pensare, trova una collocazione estremamente coerente nel percorso di Cattelan: è puro teatro, è uno spettacolo nello spettacolo, è un nuovo dramma di cui Cattelan è il regista (un regista di quelli che forse poco o niente si curano della reazione del pubblico), e del quale noi siamo spettatori cui spetta decidere come trovare la pièce: possiamo essere divertiti, tristi, seri, annoiati, furiosi, saccenti, indifferenti, astiosi, frustrati.

Vorrei intanto rispondere al pregevole tentativo di Federico Giannini di far passare gli asini per cavalli e nel mentre, magari, fare qualche considerazione sull’arte contemporanea, in particolare su quella che di contemporaneo ha conservato soltanto la propria mercantile autoreferenzialità.

Se le parole hanno ancora, oltre che un senso, un valore - un valore che ci consenta e ci permetta di articolare un pensiero compiuto - la parola “banale” non è priva di significato. Quindi, un filosofo che di professione usa le parole per descrivere ciò che vede, e lo fa con la massima lealtà e onestà intellettuale, quando vede una banana appiccicata ad un muro, descriverà la scena come quella di una banana appiccicata a un muro. Potremmo obiettare che, anche vedendo la Cappella Sistina, lo stesso filosofo potrebbe descrivere la scena come un semplice soffitto colorato ma c’è una differenza che in arte è dirimente e fondamentale.
Occorre sapere, infatti, che nella storia dell’arte ci sono un prima e un dopo: prima della fotografia e dopo la fotografia, così come nella storia del teatro ci sono un prima del cinema e un dopo il cinema.
Prima di questa rivoluzione, l’arte detta figurativa, oltre la figurazione e il cromatismo delle forme, doveva contenere un dato narrativo, spesso descrittivo di eventi mistici o religiosi o mitologici o celebrativi dei facoltosi committenti, raramente riferibili a situazioni domestiche e ordinarie. L’analfabetismo diffuso, ostacolo principale dei processi di evangelizzazione dalla parte religiosa e di suggestione dalla parte del potere feudale, costringeva la letteratura a diventare ancella di rappresentazioni figurate di fatti ed eventi che dovevano formare, con storie illustrate comprensibili universalmente, le coscienze religiose ed i sudditi del tempo. Bisogna aspettare la fine dell’ottocento perché gli artisti, finalmente convinti ad indagare autonomamente la natura ed il suo potenziale estetico, facciano un passo fuori della rappresentazione fedele delle trame letterarie, e comincino addirittura ad indagare se stessi, i propri sentimenti e le proprie pulsioni più private ed intime.
Questo processo, che da Van Gogh arriva fino all’arte informale, non è altro che una continua e progressiva liberazione di senso e di significato dell’opera d’arte. Le opere d’arte, private di qualsiasi riferimento figurativo, hanno senso e significato solo per se stesse, non più per ciò che rappresentano, perché non rappresentano più niente. In loro non ha senso nessuna “spiegazione” come vorrebbe la critica che io chiamo di tipo narrativo, formata su testi letterari e mai calata nella materialità e concretezza della scrittura artistica. Cosa ci vuol dire l’artista, all’arte contemporanea onesta non frega nulla. L’estetica contemporanea trascende la morale perché la sua etica coincide con l’estetica dell'opera, che, tramite la scrittura, ci arriva come messaggio estetico oltre qualsiasi sermone esplicito o implicito del suo contenuto.
Io non so se Federico Giannini abbia mai preso un pennello in mano, ma se lo avesse fatto capirebbe quello che sto dicendo, che il senso d’un dipinto, o di qualsiasi opera d’arte, sta nell’atto di prendere quel pennello in mano, intingerlo nel colore e comporre non un pensiero, ma un quadro reale, concreto. Quello che viene e deve  mancare nell’esperienza artistica contemporanea è la finzione, la quale può manifestarsi solo ed esclusivamente come imitazione, come metafora o come allegoria, in cui non partecipano tela, colore, oggetti o altro ma solo un eventuale significato che la materia mette in scena.
Giannini capirebbe che chiedersi: “chi sia stato il primo ad affermare quell’immane bestialità secondo cui l’arte non dovrebbe aver bisogno di spiegazioni” è confessare di non aver capito molto, per esempio, dei tagli di Fontana, dei sacchi di Burri o dei manifesti di Mimmo Rotella, che di spiegazioni, come la danza o la musica, non ne hanno mai avute. Dov’è la finzione in Fontana, Burri o Rotella? la progressiva assenza di simulazione e di significato, aprendo al mondo dell’arte l’universo dell’astrazione, lascia, quindi, quel vuoto narrativo che la tradizione artistica poneva come movente espressivo fondante. Gli artisti del passato utilizzavano la finzione scenica con la cautela di chi poteva mentire a fin di bene - il bene era considerato tale in quanto strumento di conoscenza - evitando qualsiasi evento scenico che potesse disturbare la lettura corretta del messaggio. Questo vuoto ha trovato i suoi interpreti negli artisti dell’arte concettuale, i quali hanno iniziato un percorso che ha portato all'esclusione della scrittura, del segno personale, affidando il messaggio alla sola scena. Con questi artisti l’arte figurativa diventa teatro e la finzione, non dovendo rendere conto alla concretezza d’un progetto tangibile, può liberare tutti i suoi significati: impostura, raggiro, falsità, bugia, menzogna, imbroglio,inganno. L’imbroglio dell’azione performativa, assolutamente priva di progetto e di scrittura, oggi può elevare una banalità come la banana di Cattelan a simulacro delle ipocrisie d’un mercato dell’arte disposto ad accettare d’esser preso per i fondelli. Dice Francesco Bonami: ”Dall'orinale capovolto (Fontana) presentato da Marcel Duchamp nel 1917, ad America, il cesso d'oro 18 carati di Maurizio Cattelan esposto nell'autunno 2016 al Guggenheim di New York, in cento anni abbiamo visto davvero di tutto: oggetti, concetti, progetti, accomunati dall'intento di sorprendere. Ma ora all'arte non bastano più solo idee che si rincorrono con l'obiettivo di risultare una più rivoluzionaria dell'altra: provocazione dopo provocazione, la contemporaneità ha esaurito il proprio potere di stupire. Per tornare a essere utile, l'arte deve ritrovare la capacità d'inventare e narrare storie, recuperando quell'essenziale cocktail di ingenuità e genialità che è alla base della creatività umana.” Tradotto nel mio linguaggio, dico che l’arte ha necessità di scrittura, d’invenzione, dove le idee per essere espresse non hanno più bisogno di scippare il quotidiano. È già successo, con la pop art, in un contesto nel quale la presa in giro del consumismo aveva un senso ed il sermone anticapitalista aveva una qualche prerogativa in grado di giustificarne la provocazione. Ma oggi? Perché riproporre un déjà vu banale, dopo che quest'arte per prima è diventata mercato, quindi oggetto della sua stessa contestazione? Solo l'idea, solo il concetto, in assenza di scrittura non hanno valore se non in presenza d'un mercato disposto a pagare anche il nulla esistenziale pur di sentirsi in gioco. Non è neppure sufficiente la coerenza. La banalità del gesto non acquista natura diversa in presenza del pedigree dell'autore. Chissenefrega del prima e del dopo. L'arte contemporanea, proprio quella che giustifica la precarietà e deperibilitá delle opere, si occupa del "adesso" , del presente. Un presente che si realizza nella scrittura, non nel concetto sostenuto da un'idea. Solo la scrittura marca lo spazio in un determinato tempo (spazio-tempo), solo il segno è evidenza che determina il presente con i suoi pregi e difetti, con le sue differenze. Sulla teatralità dell'arte performativa ho già scritto in passato. La sua deriva definitiva segnerà finalmente il ritorno alla scrittura e alla ricerca.


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