mercoledì 11 novembre 2020

Non penso, quindi intuisco


Il motore della conoscenza deve molto all’intuizione
Una definizione filosofica molto attuale che la riguarda contempla prevalentemente l’evidenza; ovvero l’aderenza di ciò che viene percepito coi sensi ad una realtà immediatamente presente e, appunto, per questa ragione, evidente.
Realtà è un termine che oggi, nella sua accezione positiva, non è più molto di moda. Viene spesso utilizzato come cartina al tornasole d’un mondo che ha nella virtualità la sua nuova dimora. Una dimora, tuttavia, che ha le sembianze più d’un oceano che d’una casa solida e sicura. Un oceano che ci affascina ma ci spaventa per la sua vastità e indeterminatezza. Perciò abbiamo ancora bisogno d’un approdo che ci riconnetta al mondo delle cose vere. Ed ecco che, malgrado le acrobazie del pensiero postmoderno, ci tocca rifare i conti con la verità.

«Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero». Chi parla è Aristotele nella Metafisica. Egli definisce la verità sul piano della pura logica. Come ci è arrivato? Con l’intuizione. 
Esempio: se “a ciò che è” do il segno [+] e “a ciò che non è” do il segno [-] metto in gioco la matematica che, notoriamente, è un sistema formale che non dice assolutamente nulla intorno alla realtà. Aristotele, nella sua espressione, annuncia semplicemente che due negazioni confermano; ovvero, moltiplicando [+] per [-] si ottiene [-] e moltiplicando [-] per [-] si ottiene [+]. Il che è la base di tutta la logica la quale, al contrario della matematica, ha molto a che fare con le cose del mondo. 

Provo ad applicare il principio. Se io chiedo, prima di una battaglia, quindi con un’importanza vitale: “l’amico di un nemico, è amico o nemico?” La logica risponde “nemico”. Infatti amico [+] confrontato con nemico [-] dà per risultato nemico [-]. Se io chiedo ora “ l’amico di un nemico di un amico di un nemico ecc…, cos’è? Amico o nemico?” La soluzione starà sempre nell’algebra. Se i segni [-] sono pari la risposta sarà [+], quindi amico. Se sono dispari la risposta sarà [-] e quindi nemico. Non è importante il numero delle relazioni.

Ebbene, questa è l’intuizione, ovvero la scoperta di un meccanismo che ci dà evidenza della realtà con immediatezza, senza ricorrere al ragionamento. Lo potrebbe fare una macchina e questo pone un serio problema per le filosofie che hanno nella ragione e nella coscienza di sé il proprio fondamento.
Ci si può chiedere ora quali ne siano gli ambiti e le implicazioni nella la vita delle persone. La risposta è che tutti gli aspetti della vita e della realtà possono essere sfera dell’intuito, nessuno escluso. 

Nelle questioni d’arte, in particolare quelle pittoriche, quando le tecniche di figurazione ricorrono a quanto comunemente viene confuso con l’estro, o l’istinto, si è sicuramente in presenza degli esiti dell’intuizione.
Quando tutti i sensi concorrono all’ideazione d’un’opera artistica, e la mente comincia il suo travaglio nella memoria e nell’immaginario alla ricerca d’una possibile scrittura, si può credere che una scintilla d’incanto venga a disporre sulla tela colori e forme, come se le stesse arrivassero dalla luna. Ma non è così. Almeno per mia esperienza personale, di fronte al foglio bianco, nel momento di massima astrazione dalle forme note che disturberebbero l’azione, non resta che l’azione. Ci si affida quindi al fare senza nessuna ragione pensata. Ci si affida ad un fare facendo che incatena le azioni le una alle altre senza un motivo apparentemente ragionato. Si è quindi totalmente in balìa dell’intuizione. Contrariamente a quello che dice il senso comune, in questo caso non siamo assolutamente ispirati ma piuttosto persi in un balletto di segni e di spazi mentali che trovano sulla tela la loro evidenza fisica e comunicativa. 

Occorre ciononostante una distinzione.
Tutta quell’arte che ha fatto del senso o del concetto la sua cifra determinante, ha interdetto l’accesso alla stessa all’intuizione, rendendo, questa, parte d’una soggettività preclusa per principio. Se l’arte è solo pensiero, l’azione che l’esprime ne può solo seguire disciplinatamente le indicazioni, senza possibilità di determinarne a sua volta il senso. L’annientamento della scrittura, come avviene con il ready-made, implica l’esaltazione dell’inutilità del gesto, della sua sfrontata banalità, a scapito dell’intuito creativo che si realizza solo mediante la scrittura. 
Così Jean Baudrillard: “ L’avventura dell’arte moderna è finita. L’arte contemporanea è contemporanea solo a se stessa. Non conosce più trascendenza verso il passato o il futuro, la sua unica realtà è quella della sua operazione in tempo reale, e del suo confondersi con tale realtà. (…)Non esiste più differenziale dell’arte. È rimasto soltanto il calcolo integrale della realtà. L’arte non è più altro, ormai, che un’idea prostituita nella sua realizzazione. (…) Basta fare del reale stesso una funzione inutile per trasformarlo in oggetto d’arte, consegnandolo all’estetica divorante della banalità.
(
J. Baudrillard - Il patto di lucidità o l’Intelligenza del Male)

Questa che ho detto è la ragione per cui un ritorno alla scrittura e alla soggettività dell’opera artistica è, secondo me, la sola via per riavviare la ricerca filologica nell’ambito delle arti figurative.
In architettura il discorso è analogo, malgrado il discrimine rispetto alle altre arti dato dalla propria caratteristica prevalentemente funzionale. 
Così Vilma Torselli: “I creatori di linguaggio sono i poeti, per me, perché non si pongono il problema "utilitaristico" di "significare" qualcosa: e quindi (aveva ragione Bruno Zevi) il linguaggio va desunto dai capolavori: il contrario non porta da nessuna parte. Non portano da nessuna parte le elaborazioni, per quanto concettualmente sofisticate, della linguistica e non porta, perciò, da nessuna parte l'idea di estrarre il linguaggio dalle opere "paradigmatiche". Cioè da prodotti correnti e mediocri.” 

I capolavori producono il linguaggio, e non viceversa; ergo, l’intuito produce il linguaggio che produce i capolavori. 
Sta di fatto che se non si libera il progetto architettonico dalla preminenza della sua funzione pratica, del suo senso, del suo significato, dei sui aspetti banali (direbbe Baudrillard), il ricorso all’intuito potrebbe essere negato dalle ragioni che ho detto prima. E allora addio capolavori. Soltanto rimettendo in causa quel meccanismo per cui azione e reazione producono un reale progresso del linguaggio si può riscattare il mondo attuale dalla mediocrità di fini e d’orizzonti che negano l’universalità dell’essere umano e dei valori culturali che lo identificano come tale. 

La funzione sociale dell’architettura, che sta principalmente nella sua condizione di arte pubblica, cioè visibile al di fuori delle fortezze museali, sarebbe pertanto strumento di educazione al rispetto e alla tolleranza verso le diversità e la ricchezza delle altre espressioni e linguaggi, oltre gli ambiti locali e nazionali. Tutto grazie all’intuizione, che è virtù al contempo personale e universale, ed alle sue preziose conseguenze.

Sandro Lazier - Piobesi d’Alba 13/03/2018

Testo originale e immagine pubblicati su  IQD